sabato 26 ottobre 2013

Oggi parliamo di... TOM WAITS





“Riesco quasi sempre a cavalcare sia la realtà che l'immaginazione. La mia realtà ha bisogno dell'immaginazione come una lampadina ha bisogno della presa. La mia immaginazione ha bisogno della realtà come un cieco ha bisogno del suo bastone”.

Tom Waits

Avvicinarsi ad un grande artista quale Tom Waits – non solo alla sua musica, ma alla sua intera biografia come attore, sceneggiatore e compositore oltre che come musicista – sorge inevitabile. Nella mia esperienza, tutto è iniziato non molto tempo fa rispetto alla data in cui scribacchio questo articolo: dall’ascolto di “Bad as me” del 2011, album composto a quattro mani assieme alla moglie Kathleen Brennan. Rapito dalla voce evocativa, affusolata e incantata di “Pay me” e  dalla poesia folk di “New year’s eve”, accompagnata in sottofondo dalla mite fisarmonica di David Hildalgo, ho intrapreso il percorso a ritroso alla scoperta del sound e della filosofia che plasmano il sottobosco di questo straordinario artista.

Tom Waits è l’inconfondibile lirica beat di cui egli rappresenta senz’altro uno dei massimi esponenti, lirica che si forma sin dalla sua giovinezza grazie alla smisurata passione per il jazz anni ’30 di George Gershwin, Mel Tormé e Irving Berlin, e alla fervida lettura di autori quali Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso e Norman Mailer. Sin dall’età giovanile, infatti, Tom si cimenta – con un’ esemplare essenzialità che ne definirà il tratto caratteristico – nella scrittura di canzoni che raccontano dell’America dimenticata dal sogno americano, una parata di storie di solitudine e sciagura, emarginazione sociale, alcool e droga il tutto unito - grazie al suo eclettismo - ad una tagliente ironia che pervade i suoi testi in ogni angolo nascosto.

Le canzoni di Tom sono in grado di arrivare dritto come un pugno allo stomaco, e lo si capisce sin dai primi album della prima metà degli anni ’70. “Closing time” (1973) e “The heart of Saturday night” (1974), nonostante una partenza in sordina da un punto di vista commerciale, riscuotono sin da subito il parere favorevole della critica, regalando gemme quali, tra le altre, “Grapefruit moon”, una sorta di “Strangers in the night” in miniatura, piuttosto che la nostalgica “The heart of Saturday night”, quasi una trasposizione musicale di “Nighthawks” di Edward Hopper. Nel terzo album “Nighthawks at The Diner”, il primo registrato live (1975), Tom gioca ancor più che nei primi due lavori in studio con gli schemi jazz anni ’30, a lui tanto cari, mostrando attraverso le scure corde della sua voce quell’umore nero che diventerà inconfondibile nel corso degli anni successivi. Umore sempre più definito nei suoi primi successi commerciali di larga scala, “Small change” (1976) e “Foreign affairs” (1977), prodotti in un periodo in cui Tom sta bruciando la propria vita come un fiammifero di eccessi, complice anche la relazione con un’altra artista “maledetta”, Rickie Lee Jones (relazione che durerà pochi anni). A questo punto la voce del Nostro (ascoltare “Bad liver and a broken heart” o “Foreign affair”), frutto di sperimentazioni continue e di ricerca dell’unicità, può già a rigore esser definita - come farà in seguito il famoso critico musicale Daniel Durchholz - “come immersa in un tino di whiskey, appesa in un affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una macchina”. Io aggiungo che nell’ascoltare la rauca voce di Tom in “Blue Valentine” (1978) all’apice della sua vita di esagerazioni, l’ho immaginato - provare per credere “Wrong side of the road” - alle prese con Charles Bukowski che lo prende per il collo e stritola le sue corde vocali dentro un torchio come fa con i personaggi di “Storie di ordinaria follia”.

L’inizio degli anni ’80 vede un Tom Waits salvato nelle sue vicende personali dall’incontro e successivo matrimonio con Kathleen Brennan, che a detta dell’artista stesso rappresenta il punto di svolta della propria vita. Ma non per questo la sua musica appare meno straziante e piena di cicatrici, come ad esempio in “Heartattack and vine” (1980), che è un’orgia tra il blues ed il punk più strisciante, nonché nella successiva “Trilogia di Frank”, vale a dire i tre album “Swordfishtrombones” (1983), “Rain dogs” (1985) e l’opera teatrale “Frank's wild years” (1987), album considerati quasi unanimemente dalla critica come i più belli dell’artista, in cui Tom apre alle più disparate sperimentazioni. In questi album si possono infatti scorgere, oltre alle immancabili gemme nostalgiche (“Time”, “Innocent when you dream”, “Train song”), elementi di richiamo allo swing anni ’30 tanto caro ai beatnik (“Down down down”), al folk delle campagne perdute nel Sud degli States (“Cold cold ground”) e all’immancabile blues (“Union square”, “Big black Mariah”).

Nel corso della sua intensa attività discografica e live come musicista, Tom troverà anche il tempo per avventurarsi nelle collaborazioni cinematografiche, scrivendo nel 1982 la colonna sonora di “One from the heart” di Francis Ford Coppola, e nel 1992 (con la moglie Kathleen Brennan) quella di “Night on Earth” di Jim Jarmush.

Sul finire degli anni ’80 Tom sforna un gran album live, “Big time” (1988), registrato dal vivo al Warfield di San Francisco ed al Wiltern Theatre di Los Angeles, che immortala quello che a detta di molti è stato il suo più gran tour da un punto di vista di feeling col pubblico ed interpretazione, ed in cui è possibile ascoltare alcune delle sue più grandi versioni dal vivo di pezzi come “Way down in the hole”, “Falling down”, “Big black Mariah”, “Train song”, “Ruby’s arms” e “Time”. Gli anni ’90 non lo vedono affatto calare di intensità da un punto di vista artistico, dato che il biglietto da visita con cui il Nostro si presenta è niente poco di meno che “Bone machine” (1992), quello che a mio personale parere è uno tra i migliori album di Tom Waits, fosse anche solo per l’ascolto dei capolavori “Whistle down the wind” e “Little rain (for Clyde)”, tra le altre gemme in esso contenute. E’ sempre nel corso degli anni ’90 che Tom imbocca la strada del teatro, con la co-produzione di importanti opere da egli musicate come “The black rider” (1993), frutto della collaborazione con Robert Wilson e William Borroughs, e l’accoppiata “Blood money”/”Alice” (entrambi del 2002, sempre entrambi realizzati in collaborazione con Robert Wilson).

Merita una immancabile citazione anche “Mule variations” (1999), che contiene quello che a mio avviso è il più bel pezzo di Tom Waits - “House where nobody lives” - e tutti gli ultimi album (sia live che in studio) del primo decennio del 2000 in cui Tom si concede alle più variegate sperimentazioni, producendo album come “Real gone” (2004) e “Orphans, brawlers, bawlers & bastards” (2006), che è una raccolta di inediti e vecchi successi magistralmente reinterpretati.

Lunga vita a Tom, dunque. E buon ascolto.

D.M.






DISCOGRAFIA

1973 Closing Time
1974 The Heart of Saturday Night
1975 Nighthawks at the Diner (Live)
1976 Small Change
1977 Foreign Affairs
1978 Blue Valentine
1980 Heartattack and Vine
1982 One from the Heart (O.S.T.)
1983 Swordfishtrombones
1985 Rain Dogs
1987 Frank’s Wild Years
1988 Big Time (Live)
1992 Night on Earth (O.S.T.)
1992 Bone Machine
1993 The Black Rider
1999 Mule Variations
2002 Blood Money
2002 Alice
2004 Real Gone
2006 Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards (Box set)
2009 Glitter and Doom (Live)
2011 Bad as Me


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