“Riesco quasi sempre a cavalcare sia la realtà che l'immaginazione. La mia realtà ha bisogno dell'immaginazione come una lampadina ha bisogno della presa. La mia immaginazione ha bisogno della realtà come un cieco ha bisogno del suo bastone”.
Tom Waits
Avvicinarsi ad un grande artista
quale Tom Waits – non solo alla sua musica, ma alla sua intera biografia come
attore, sceneggiatore e compositore oltre che come musicista – sorge
inevitabile. Nella mia esperienza, tutto è iniziato non molto tempo fa rispetto
alla data in cui scribacchio questo articolo: dall’ascolto di “Bad as me” del
2011, album composto a quattro mani assieme alla moglie Kathleen Brennan.
Rapito dalla voce evocativa, affusolata e incantata di “Pay me” e dalla poesia folk di “New year’s eve”,
accompagnata in sottofondo dalla mite fisarmonica di David Hildalgo, ho
intrapreso il percorso a ritroso alla scoperta del sound e della
filosofia che plasmano il sottobosco di questo straordinario artista.
Tom Waits è l’inconfondibile
lirica beat di cui egli rappresenta senz’altro uno dei massimi esponenti,
lirica che si forma sin dalla sua giovinezza grazie alla smisurata passione
per il jazz anni ’30 di George Gershwin, Mel Tormé e Irving Berlin, e alla
fervida lettura di autori quali Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso
e Norman Mailer. Sin dall’età giovanile, infatti, Tom si cimenta – con un’ esemplare
essenzialità che ne definirà il tratto caratteristico – nella scrittura di
canzoni che raccontano dell’America dimenticata dal sogno americano, una parata
di storie di solitudine e sciagura, emarginazione sociale, alcool e droga il
tutto unito - grazie al suo eclettismo - ad una tagliente ironia che pervade i
suoi testi in ogni angolo nascosto.
Le canzoni di Tom sono in grado
di arrivare dritto come un pugno allo stomaco, e lo si capisce sin dai
primi album della prima metà degli anni ’70. “Closing time” (1973) e “The
heart of Saturday night” (1974), nonostante una partenza in sordina da un
punto di vista commerciale, riscuotono sin da subito il parere favorevole della
critica, regalando gemme quali, tra le altre, “Grapefruit moon”, una sorta di
“Strangers in the night” in miniatura, piuttosto che la nostalgica “The heart
of Saturday night”, quasi una trasposizione musicale di “Nighthawks” di Edward
Hopper. Nel terzo album “Nighthawks at The
Diner”, il primo registrato live (1975), Tom gioca ancor più che nei primi
due lavori in studio con gli schemi jazz anni ’30, a lui tanto cari, mostrando attraverso
le scure corde della sua voce quell’umore nero che diventerà inconfondibile nel
corso degli anni successivi. Umore sempre più definito nei suoi primi successi
commerciali di larga scala, “Small
change” (1976) e “Foreign affairs”
(1977), prodotti in un periodo in cui Tom sta bruciando la propria vita come un
fiammifero di eccessi, complice anche la relazione con un’altra artista
“maledetta”, Rickie Lee Jones (relazione che durerà pochi anni). A questo punto
la voce del Nostro (ascoltare “Bad liver and a broken heart” o “Foreign
affair”), frutto di sperimentazioni continue e di ricerca dell’unicità, può già
a rigore esser definita - come farà in seguito il famoso critico musicale
Daniel Durchholz - “come immersa in un tino di whiskey, appesa in un
affumicatoio per qualche mese e infine portata fuori e investita con una
macchina”. Io aggiungo che nell’ascoltare la rauca voce di Tom in “Blue
Valentine” (1978) all’apice della sua vita di esagerazioni, l’ho immaginato - provare per credere
“Wrong side of the road” - alle prese con Charles
Bukowski che lo prende per il collo e stritola le sue corde vocali dentro un
torchio come fa con i personaggi di “Storie di ordinaria follia”.
L’inizio degli anni ’80 vede un
Tom Waits salvato nelle sue vicende personali dall’incontro e successivo
matrimonio con Kathleen Brennan, che a detta dell’artista stesso rappresenta il
punto di svolta della propria vita. Ma non per questo la sua musica appare meno
straziante e piena di cicatrici, come ad esempio in “Heartattack and vine” (1980), che è un’orgia tra il blues ed il punk
più strisciante, nonché nella successiva “Trilogia di Frank”, vale a dire i tre
album “Swordfishtrombones” (1983), “Rain dogs” (1985) e l’opera teatrale “Frank's wild years” (1987), album
considerati quasi unanimemente dalla critica come i più belli dell’artista, in
cui Tom apre alle più disparate sperimentazioni. In questi album si possono
infatti scorgere, oltre alle immancabili gemme nostalgiche (“Time”, “Innocent
when you dream”, “Train song”), elementi di richiamo allo swing anni ’30 tanto
caro ai beatnik (“Down down down”), al folk delle campagne perdute nel Sud
degli States (“Cold cold ground”) e all’immancabile blues (“Union square”, “Big
black Mariah”).
Nel corso della sua intensa
attività discografica e live come musicista, Tom troverà anche il tempo per
avventurarsi nelle collaborazioni cinematografiche, scrivendo nel 1982 la
colonna sonora di “One from the heart”
di Francis Ford Coppola, e nel 1992 (con la moglie Kathleen Brennan) quella di
“Night on Earth” di Jim Jarmush.
Sul finire degli anni ’80 Tom
sforna un gran album live, “Big time”
(1988), registrato dal vivo al Warfield di San Francisco ed al Wiltern Theatre
di Los Angeles, che immortala quello che a detta di molti è stato il suo più
gran tour da un punto di vista di feeling col pubblico ed interpretazione, ed
in cui è possibile ascoltare alcune delle sue più grandi versioni dal vivo di
pezzi come “Way down in the hole”, “Falling down”, “Big black Mariah”, “Train
song”, “Ruby’s arms” e “Time”. Gli anni ’90 non lo vedono affatto calare di
intensità da un punto di vista artistico, dato che il biglietto da visita con
cui il Nostro si presenta è niente poco di meno che “Bone machine” (1992), quello che a mio personale parere è uno tra i
migliori album di Tom Waits, fosse anche solo per l’ascolto dei capolavori
“Whistle down the wind” e “Little rain (for Clyde)”, tra le altre gemme in esso
contenute. E’ sempre nel corso degli anni ’90 che Tom imbocca la strada del
teatro, con la co-produzione di importanti opere da egli musicate come “The black rider” (1993), frutto della
collaborazione con Robert Wilson e William Borroughs, e l’accoppiata “Blood money”/”Alice” (entrambi del 2002, sempre entrambi realizzati in
collaborazione con Robert Wilson).
Merita una immancabile citazione
anche “Mule variations” (1999), che
contiene quello che a mio avviso è il più bel pezzo di Tom Waits - “House where
nobody lives” - e tutti gli ultimi album (sia live che in studio) del primo
decennio del 2000 in cui Tom si concede alle più variegate sperimentazioni,
producendo album come “Real gone”
(2004) e “Orphans, brawlers, bawlers
& bastards” (2006), che è una raccolta di inediti e vecchi successi
magistralmente reinterpretati.
Lunga vita a Tom, dunque. E buon
ascolto.
D.M.
DISCOGRAFIA
1973
Closing Time
1974 The
Heart of Saturday Night
1975
Nighthawks at the Diner (Live)
1976 Small
Change
1977
Foreign Affairs
1978 Blue
Valentine
1980
Heartattack and Vine
1982 One
from the Heart (O.S.T.)
1983
Swordfishtrombones
1985 Rain
Dogs
1987
Frank’s Wild Years
1988 Big
Time (Live)
1992 Night
on Earth (O.S.T.)
1992 Bone
Machine
1993 The
Black Rider
1999 Mule
Variations
2002 Blood
Money
2002 Alice
2004 Real
Gone
2006 Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards (Box set)
2006 Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards (Box set)
2009
Glitter and Doom (Live)
2011 Bad as
Me
fantastico! Inizierò a seguirti!!
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