mercoledì 27 agosto 2014

Oggi parliamo di... BROUGHT LOW


THE BROUGHT LOW
Right on time (2006)
Small Stone
♫♫♫♫♫

Ci sono Bands che bruceranno la loro esistenza all’ombra di un utopico ed irraggiungibile successo. Bands che, quale unico premio alle loro fatiche, avranno per l’eternità nient’altro che un fugace pasto alla buona dentro una squallida stanzetta d’albergo. Relegate a girare gli States a bordo di un vecchio Volkswagen Transporter scassato, indugeranno sulla strada tra piccoli e fumosi club, misti d’una manciata di alcolisti anonimi e pochi irriducibili appassionati. I loro album patiranno un’infinita serie di ristampe, senza per questo riuscire a vendere una sola copia. Ma è fuori dal tempo e lontano dallo spazio, di notte, tra la luce dei lampioni che illumina la linea di mezzeria di un’autostrada solitaria e il tachimetro impolverato che spinge i pneumatici ai limiti del concesso, che il loro sound trova dimora ed esprime appieno il proprio – trascurato – potenziale. Prodigheranno piccole gemme che sono storie di sconfitta, di solitudine ed emarginazione sociale, aneddoti di eterna insoddisfazione verso tutto ciò che ci circonda e che inevitabilmente sfugge al nostro controllo.

La copertina di
Right on time (2006)
Brought Low, guidati dal talentuoso chitarrista e cantante Benjamin Howard Smith, sono una di queste Bands. Newyorkese di provenienza ma decisamente “southern” in quanto a stile, la formazione completata da Nick Heller alla batteria e da Robert Russell al basso porta a maturazione il proprio sound a 5 anni di distanza dall’omonimo album di debutto “The Brought Low” (2001) distribuito dalla Tee Pee Records, album in cui avevano già impostato un primo timido, discreto tentativo di riproporre in chiave post-11 settembre un old-school rock alla Aerosmith-prima-era. Con questo secondo lavoro, “Right on Time” (2006), che segna l’inizio della (speriamo lunga e felice) collaborazione con la Small Stone Records (Dixie Witch, Five Horse Johnson, Green Leaf, Sasquatch), i nostri mettono a segno un vero e proprio colpo da biliardo ascrivibile a tutti gli effetti tra i piccoli capolavori di nicchia da portare nell’isola deserta dei naufraghi del Southern Rock. L’album è magistralmente congegnato dal primo all’ultimo brano, con sonorità caratterizzate da un’impronta sobria ma decisamente rocciosa, tra accattivanti riff di chitarra che ti lasciano quella gustosa sensazione dell’essere senza tempo ed una sezione ritmica che intesse un groove incessante, “pieno” e perfettamente amalgamato ai temi-guida architettati da Smith. Smith che, tra l’altro, rinviene tutto il rinvenibile da una voce – diciamoci la verità – non indimenticabile ma pur adattissima ai temi lamentosi e tormentati del disco, fatti di amore viscerale per la strada, di notti insonni consumate all’angolo di una desolata banchina della subway di New York, o agitandosi tra i cuscini del letto d’una squallida periferia.


Robert Russell (bass)
A Better Life apre l’album come fosse un pugno allo stomaco; la cupa chitarra acustica di Smith introduce un accattivante e coinvolgente riff chitarristico, poderosamente supportato da un duo basso-batteria che cavalca il pezzo tra stacchi degni d’una perfezionata riproposizione del Red Album dei Grand Funk Railroad. La canticchiabile Hail Mary ci conduce verso un ambiente più “vintage”, ispirandosi a un’impronta in stile Lynyrd Skynyrd à-la Street Survivors, con un pianoforte che contribuisce a rendere il pezzo decisamente più orecchiabile, pur in presenza della chitarra di Smith che continua a farla sempre ed inevitabilmente da padrone. Ma Hail Mary è un pezzo ingegnosamente posizionato allo scopo di far balzare dalla sedia il poveraccio che si imbatte nella successiva This Ain’t No Game, vale a dire la più incazzata essenza dei Rolling Stones che ci urla in faccia in modo palese quanto il Southern Rock si sia sempre ad essi ispirato, una cavalcata senza sosta in fuga da ciò che volete voi, purchè sia un qualcosa che vi trasmette inquietudine. Il brano comunica in modo sconvolgente come il “suonare semplice” sia il modo più efficace per arrivare dritto al cervello.



Il rock‘n’roll cammina su strade dritte.

Da sx: Robert Russell, Nick Heller,
Ben Smith: The Brought Low
Vado a bermi un bicchiere d’acqua, e mi strofino la fronte con un panno umido, ma non c’è pace per me, povero ascoltatore indifeso, quando Tell Me mi colpisce… Ok, è vero, il testo a questo punto è davvero imbarazzante, ma come resistere al trascinante riff di Smith che cerca di seminare i suoi senza riuscirci? Lo seguono come un’ombra, anche quando si avventura in uno “special” alla Allman Brothers Band in stile Jessica. Le note di chitarra mi entrano in testa come un ossesso, e dovrò fare una cura povera di fosforo per togliermele dalla zucca. L’album scorre come uno straight whisky con ghiaccio, passando per una Dear Ohio in rispolverato stile Neil Young di Cinnamon Girl, e una Throne con quel basso impastato e tetro che rievoca gli incastri di Geezer Butler in Supernaut di Black Sabbath Volume Four, per arrivare alla celebrata Vernon Jackson, cui va l’attributo di radio-hit dell’album grazie all’essenziale ma ficcante motivo chitarristico e al songwriting, stavolta efficace e sostanzioso, di Smith. Shakedown è il piccolo momento di gloria per il bravo batterista e membro fondatore della Band Nick Heller, che mette in mostra uno stile sobrio ma originale, mai invasivo ma cruciale nel contribuire al sound dei Brought Low. Il brano va dritto come un treno in modo trascinante, e la possente conduzione percussiva genera quell’impulso irresistibile – concesso ahinoi solo a chi ha i capelli – di scuotere incessantemente la chioma su e giù al ritmo del pezzo, come fanno oggi i giovani teenagers a un concerto dei Dark Tranquillity.


Copertina del 1. album omonimo,
The Brought Low (2001)
Arrivo quasi con le ossa rotte alla fine dell’album, ma non ho ancora finito di patire le pene dell’inferno perché proprio quando sembra che la quiete mi si adagi attorno dopo la tempesta, Blues for Cubby – l’indiscutibile e sontuoso capolavoro dell’album – mi ferisce in ogni mio punto come fossi vittima di un pacchetto di mischia di rugbisti neozelandesi. È proprio come dice il pezzo, non c’è bianco o nero che tenga, ne giusto o sbagliato che sia… i Brought Low non propinano canzoni di protesta, ma raccontano solo di un fucile nella notte che hai piantato in culo e dal quale inutilmente tenti di fuggire.

Evviva il canto della disperazione.


3. e ultimo album alla data
in cui scrivo, Third Record (2010)
Con la distesa e malinconica There’s a Light si chiude infine il sipario, e giungiamo al termine del nostro viaggio… ma è una ballad che mi fa pensare a quell’aereo che il 20 Ottobre del 1977 cadde dal cielo sulle paludi di Gillsburg, MS, bruciando la vita di Ronnie Van Zant e con questa la folle speranza che il Southern Rock vivesse per sempre anzichè consumarsi come l’effimero volo di una farfalla accecata dalla luce. Bands come i Brought Low sanno ridare linfa a quell’erba bruciata, ed io vorrei sperare che Warren Haynes dei Gov’t Mule o Chris Robinson dei Black Crowes si siano anch’essi malauguratamente imbattuti in questa esplosiva miscela di energia e groove che sono i Brought Low, perché i loro pezzi gareggiano alla pari di molti brani-culto dei Mule o dei Crowes. David Bowie non ce ne voglia, ma possiamo a ragion veduta mandarlo a spendere nell’asserire che se Right on Time fosse stato prodotto 10 anni prima, David Lynch avrebbe eletto A Better LifeBlues For Cubby e This Ain’t No Game a perfetta colonna sonora per il suo Lost Highways.


Ben Smith (Vocals, guitar)
Cuore, braccio e mente pulsante dei Low
EPICO.


D.M.



DISCOGRAFIA
tHE bROUGHT lOW (2001)
rIGHT oN tIME (2006)
tHIRD rECORD (2010)






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