Ci sono Bands che bruceranno la loro
esistenza all’ombra di un utopico ed irraggiungibile successo. Bands che, quale
unico premio alle loro fatiche, avranno per l’eternità nient’altro che un
fugace pasto alla buona dentro una squallida stanzetta d’albergo. Relegate a
girare gli States a bordo di un vecchio Volkswagen Transporter scassato, indugeranno
sulla strada tra piccoli e fumosi club, misti d’una manciata di alcolisti
anonimi e pochi irriducibili appassionati. I loro album patiranno un’infinita
serie di ristampe, senza per questo riuscire a vendere una sola copia. Ma è fuori
dal tempo e lontano dallo spazio, di notte, tra la luce dei lampioni che
illumina la linea di mezzeria di un’autostrada solitaria e il tachimetro impolverato
che spinge i pneumatici ai limiti del concesso, che il loro sound trova dimora
ed esprime appieno il proprio – trascurato – potenziale. Prodigheranno piccole
gemme che sono storie di sconfitta, di solitudine ed emarginazione sociale,
aneddoti di eterna insoddisfazione verso tutto ciò che ci circonda e che
inevitabilmente sfugge al nostro controllo.
La copertina di Right on time (2006)
I Brought Low, guidati dal talentuoso chitarrista e cantante Benjamin Howard Smith, sono una di queste Bands. Newyorkese di provenienza ma decisamente “southern” in quanto a stile, la formazione completata da Nick Heller alla batteria e da Robert Russell al basso porta a maturazione il proprio sound a 5 anni di distanza dall’omonimo album di debutto “The Brought Low” (2001) distribuito dalla Tee Pee Records, album in cui avevano già impostato un primo timido, discreto tentativo di riproporre in chiave post-11 settembre un old-school rock alla Aerosmith-prima-era. Con questo secondo lavoro, “Right on Time” (2006), che segna l’inizio della (speriamo lunga e felice) collaborazione con la Small Stone Records (Dixie Witch, Five Horse Johnson, Green Leaf, Sasquatch), i nostri mettono a segno un vero e proprio colpo da biliardo ascrivibile a tutti gli effetti tra i piccoli capolavori di nicchia da portare nell’isola deserta dei naufraghi del Southern Rock. L’album è magistralmente congegnato dal primo all’ultimo brano, con sonorità caratterizzate da un’impronta sobria ma decisamente rocciosa, tra accattivanti riff di chitarra che ti lasciano quella gustosa sensazione dell’essere senza tempo ed una sezione ritmica che intesse un groove incessante, “pieno” e perfettamente amalgamato ai temi-guida architettati da Smith. Smith che, tra l’altro, rinviene tutto il rinvenibile da una voce – diciamoci la verità – non indimenticabile ma pur adattissima ai temi lamentosi e tormentati del disco, fatti di amore viscerale per la strada, di notti insonni consumate all’angolo di una desolata banchina della subway di New York, o agitandosi tra i cuscini del letto d’una squallida periferia.
Robert Russell (bass)
A Better Life apre l’album come fosse un pugno allo stomaco; la cupa chitarra acustica di Smith introduce un accattivante e coinvolgente riff chitarristico, poderosamente supportato da un duo basso-batteria che cavalca il pezzo tra stacchi degni d’una perfezionata riproposizione del Red Album dei Grand Funk Railroad. La canticchiabile Hail Mary ci conduce verso un ambiente più “vintage”, ispirandosi a un’impronta in stile Lynyrd Skynyrd à-la Street Survivors, con un pianoforte che contribuisce a rendere il pezzo decisamente più orecchiabile, pur in presenza della chitarra di Smith che continua a farla sempre ed inevitabilmente da padrone. Ma Hail Mary è un pezzo ingegnosamente posizionato allo scopo di far balzare dalla sedia il poveraccio che si imbatte nella successiva This Ain’t No Game, vale a dire la più incazzata essenza dei Rolling Stones che ci urla in faccia in modo palese quanto il Southern Rock si sia sempre ad essi ispirato, una cavalcata senza sosta in fuga da ciò che volete voi, purchè sia un qualcosa che vi trasmette inquietudine. Il brano comunica in modo sconvolgente come il “suonare semplice” sia il modo più efficace per arrivare dritto al cervello.
Il rock‘n’roll cammina su strade dritte.
Da sx: Robert Russell, Nick Heller, Ben Smith: The Brought Low
Vado a bermi un bicchiere d’acqua, e mi strofino la fronte con un panno umido, ma non c’è pace per me, povero ascoltatore indifeso, quando Tell Me mi colpisce… Ok, è vero, il testo a questo punto è davvero imbarazzante, ma come resistere al trascinante riff di Smith che cerca di seminare i suoi senza riuscirci? Lo seguono come un’ombra, anche quando si avventura in uno “special” alla Allman Brothers Band in stile Jessica. Le note di chitarra mi entrano in testa come un ossesso, e dovrò fare una cura povera di fosforo per togliermele dalla zucca. L’album scorre come uno straight whisky con ghiaccio, passando per una Dear Ohio in rispolverato stile Neil Young di Cinnamon Girl, e una Throne con quel basso impastato e tetro che rievoca gli incastri di Geezer Butler in Supernaut di Black Sabbath Volume Four, per arrivare alla celebrata Vernon Jackson, cui va l’attributo di radio-hit dell’album grazie all’essenziale ma ficcante motivo chitarristico e al songwriting, stavolta efficace e sostanzioso, di Smith. Shakedown è il piccolo momento di gloria per il bravo batterista e membro fondatore della Band Nick Heller, che mette in mostra uno stile sobrio ma originale, mai invasivo ma cruciale nel contribuire al sound dei Brought Low. Il brano va dritto come un treno in modo trascinante, e la possente conduzione percussiva genera quell’impulso irresistibile – concesso ahinoi solo a chi ha i capelli – di scuotere incessantemente la chioma su e giù al ritmo del pezzo, come fanno oggi i giovani teenagers a un concerto dei Dark Tranquillity.
Copertina del 1. album omonimo, The Brought Low (2001)
Arrivo quasi con le ossa rotte alla fine dell’album, ma non ho ancora finito di patire le pene dell’inferno perché proprio quando sembra che la quiete mi si adagi attorno dopo la tempesta, Blues for Cubby – l’indiscutibile e sontuoso capolavoro dell’album – mi ferisce in ogni mio punto come fossi vittima di un pacchetto di mischia di rugbisti neozelandesi. È proprio come dice il pezzo, non c’è bianco o nero che tenga, ne giusto o sbagliato che sia… i Brought Low non propinano canzoni di protesta, ma raccontano solo di un fucile nella notte che hai piantato in culo e dal quale inutilmente tenti di fuggire.
Evviva il canto della disperazione.
3. e ultimo album alla data in cui scrivo, Third Record (2010)
Con la distesa e malinconica There’s a Light si chiude infine il sipario, e giungiamo al termine del nostro viaggio… ma è una ballad che mi fa pensare a quell’aereo che il 20 Ottobre del 1977 cadde dal cielo sulle paludi di Gillsburg, MS, bruciando la vita di Ronnie Van Zant e con questa la folle speranza che il Southern Rock vivesse per sempre anzichè consumarsi come l’effimero volo di una farfalla accecata dalla luce. Bands come i Brought Low sanno ridare linfa a quell’erba bruciata, ed io vorrei sperare che Warren Haynes dei Gov’t Mule o Chris Robinson dei Black Crowes si siano anch’essi malauguratamente imbattuti in questa esplosiva miscela di energia e groove che sono i Brought Low, perché i loro pezzi gareggiano alla pari di molti brani-culto dei Mule o dei Crowes. David Bowie non ce ne voglia, ma possiamo a ragion veduta mandarlo a spendere nell’asserire che se Right on Time fosse stato prodotto 10 anni prima, David Lynch avrebbe eletto A Better Life, Blues For Cubby e This Ain’t No Game a perfetta colonna sonora per il suo Lost Highways.
“One of the most distinctive, influential alternative bands of the ‘80s, creators of a loud, sprawling rock and roll driven by J Mascis’ offhand vocals” (Stephen Thomas Erlewine)
Oggi due parole su una band
considerata tra i padri del cosiddetto “noise rock”, i Dinosaur Jr. Storico
trio che nasce nel 1984 ad Amherst, Massachussets, nel cuore della provincia
americana, e composto da J. Mascis (chitarra, voce solista), Lou Barlow (basso,
voce) e Murph (batteria); inizialmente i 3 assumono il nome Dinosaur, ma sono
presto costretti a modificarlo a causa di lamentele, formalizzate anche per vie
legali, da parte di una formazione che già negli anni ’70 aveva utilizzato quel
nome, i Dinosaurs (band da vacanza formata da membri dei Quicksilver Messenger
Service, Hot Tuna, Grateful Dead, Jefferson Airplane e Country Joe & The
Fish).
Ripercorrere dall’inizio la
carriera dei Dinosaur Jr. permette di constatare come questa band sia
sensibilmente migliorata nel corso degli anni, un po’ come le prestazioni alla
distanza di un motore diesel. Ascoltando infatti i primi album d’esordio
prodotti nella seconda metà degli anni ’80, e confrontandoli con il sound
elaborato negli ultimi lavori post-reunion un ventennio più tardi, ci si rende
conto di come l’accresciuta maturità musicale di Mascis & C. abbia
conferito sensibili benefici (non tanto al songwriting, profondo e di sostanza
sin dai primi album, quanto piuttosto) al sound dei dinosauri. I primi album,
soprattutto il trittico iniziale Dinosaur
Jr. (1985), You’re living all over me
(1987) e Bug (1998) sono suonati
in maniera molto “istintiva” ed “immatura”, pur avendo contribuito –
riconoscimento arrivato solo diversi anni dopo la loro pubblicazione – alla
nascita del c.d. genere grind, antenato del grunge che emergerà qualche anno
più tardi con gruppi come i Nirvana, primo esperimento di mix tra una vena punk
alla Sonic Youth, ed una molto più melodica e pop da molti accostata a Neil
Young.Band il cui tratto distintivo ed
a suo tempo innovativo – siamo nella seconda metà degli anni ’80 – fu
rappresentato da uno stile molto rude e rumoroso, a più riprese stonato,
trascinato ed ipnotico, ma anche da un’impostazione più melodica rispetto a
quella che i gruppi punk rivali, come i Pixies,
davano alla loro musica in quegli anni. Si tratta dunque di un power trio
che ha contribuito a battere la strada del grunge in tempi non sospetti, un
trio che nonostante il seguito crescente guadagnato nel corso dei quasi 30 anni
di attività, non è mai riuscito ad uscire completamente dal circuito
underground americano (ed è forse anche un effetto voluto dai componenti della
band stessa, riflesso delle loro personalità schive ed introverse), a parte il
successo ottenuto oltreoceano con i primi 3 album, soprattutto in Inghilterra.
Trio che comunque non è riuscito a conservare nel tempo una sostanziale
stabilità, ha anzi attraversato una travagliata storia di addii, ritorni,
alternanza di session-man e componenti occasionali, scioglimenti e reunion. Mascis e Barlow si conoscono sin
dai tempi delle scuole superiori, all’inizio degli anni ’80, periodo in cui tra
l’altro condividono assieme l’esperienza nei Deep Wound dove Mascis è il batterista e Barlow il chitarrista
(!!!). Le band ispiratrici dei due sono le stesse; sono infatti entrambi
appassionati all’hardcore punk dei Replacements
e degli Stooges, alle influenze
neo-gotiche dei Black Sabbath,
all’ispirazione psichedelica dei Dream
Syndicate e ai lamenti vocali e chitarristici di Neil Young e dei suoi Crazy
Horse. Entrambi amano i tratti caratteristici di un sound a elevato livello
di decibel, intriso di feedbacks e distorsioni.Dalle ceneri dei Deep Wound
nascono, nel 1984, i Mogo, che sono
fondamentalmente la stessa formazione (Mascis, stavolta alla chitarra, Barlow
al basso e Murph nuovo innesto alla batteria) con Charlie Nakajima (anche lui
militato nelle file dei Deep Wound) alla voce. La band fa in tempo ad esibirsi
dal vivo in una sola occasione, nel settembre 1984, al campus universitario
dell’università di Amherst. Mascis fa fuori Nakajima dal gruppo il giorno
successivo, a causa dei suoi comportamenti troppo “reazionari” e
“politicizzati” sul palcoscenico. Mascis ha tuttavia pronte una serie di
canzoni per registrare un disco, proponendosi a Barlow e Murph come cantante in
collaborazione col supporto vocale di Barlow. I due si alterneranno alla voce,
assumendo la forma di un power-trio senza cantante titolare. Il programma è di
auto prodursi il disco stesso, con l’aiuto del vecchio amico dei tempi dei Deep
Wound, Gerard Cosloy, che nel frattempo ha fondato una sua etichetta
discografica, la Homestead Records. “Dinosaur” esce nel 1985 e non
riceve alcun consenso commerciale. Vengono tirate 1.500 copie del disco per un
costo totale della produzione discografica di 500 $. Mascis definisce il sound
di questo album “country da far sanguinare le orecchie”, e si tratta in effetti
di una particolarissima commistione tra hardcore punk carico di gain e
dissonanze, richiami al garage-rock di Gram
Parsons e dei Creedence Clearwater
Revival, ed ai riff metal dei Blue
Cheer e dei Kiss. La svolta
avviene, piuttosto, dopo l’uscita del primo album. Il terzetto si trasferisce a
New York per un mini-tour e viene notato, durante un’esibizione, da alcuni
membri dei Sonic Youth che
proporranno loro di fare da supporto al loro tour dell’anno successivo.“You’re living al lover me” esce
nel 1987 sotto un’etichetta diversa da quella dell’amico Cosloy, la californiana
SST Records. L’album viene prodotto dal tecnico del suono dei Sonic Youth,
Wharton Tiers, ed assume una forma più melodica rispetto al primo album;
ottiene d’altra parte un ottimo riscontro nel circuito underground.
Inizialmente il disco circola con una produzione bonus allegata, Weed Forestin’
di Lou Barlow come solista, produzione che rappresenta lo scheletro di quella
che sarà la futura separazione tra Mascis e Barlow, quando il secondo fonderà i
Sebadoh. In occasione di questo
secondo album nascono parecchie tensioni all’interno della band, e per il già
citato “tradimento” operato da Mascis verso l’amico Cosloy che avrebbe
volentieri edito anche il secondo disco, e per il “malumore” di Mascis verso i
fronzoli in testa a Barlow e i suoi progetti “collaterali” ai Dinosaur Jr., e
soprattutto per le tensioni tra Mascis e Murph, laddove quest’ultimo lamenta
un’eccessiva ingerenza del primo nel merito delle parti batteristiche delle
registrazioni. Mascis infatti, essendo anche batterista, tende ad “imporre” un
suo groove di riferimento a Murph arrivando addirittura ad ordinargli delle
apposite partiture. Terminate le registrazioni, Mascis se ne torna dalla
California a New York, aliendndosi dal resto della band.
“Bug” esce nel 1988 e segna la
rottura della collaborazione fra Mascis e Barlow, con quest’ultimo che si
dedica completamente al progetto dei Sebadoh. La rottura avviene dopo una
fortunata scalata alle classifiche indipendenti del Regno Unito, e dopo un
grande successo oltreoceano a seguito del tour proprio in Inghilterra. I brani
del terzo album sono più melodici di quelli dei primi due, e riflettono il
completo controllo che l’impostazione di Mascis riflette sia sul sound della
batteria che del basso da egli imposti, oltre che del suo songwriting e della
sua chitarra e voce. È insomma un album in cui il sound è “imposto” da Mascis,
il quale nonostante ciò confesserà negli anni a venire che si tratta dell’album
che meno apprezza, col senno di poi, fra tutta la produzione discografica dei
Nostri nel corso degli anni. La produzione in trio dei primi
tre album non avrà più un seguito, nonostante la firma nel 1990 con la major
Sire Records. Mascis rimane “solo” ed è costretto ad auto prodursi in studio la
gran parte delle registrazioni di tutti gli strumenti, avvalendosi
dell’alternanza di una fitta schiera di collaboratori “occasionali”, sia in
studio che live. Gli album degli anni successivi perdono di conseguenza anche
quei tratti di originalità ed innovatività che il trittico Dinosaur/You’re
living al lover me/Bug avevano avuto, sul finire degli anni ’80. E questo
nonostante il maggiore apporto di “melodicità” e “commerciabilità” tengono a
galla Mascis e tutta la sua baracca per altri 4 album nel corso degli anni ’90;
i Dinosaur Jr. andranno in tour anche avvalendosi di una band di supporto
chiamata Nirvana (!!!). “Green Mind” esce nel 1991 ed è
praticamente registrato in studio dalla “One-man band” J. Mascis che scrive le
canzoni e suona chitarra, basso e batteria, avvalendosi solo a tratti della
marginale collaborazione del chitarrista Don Fleming e del bassista Jay
Spiegel. Nel corso dei tre album successivi,
“Where you been” (1993), “Without a sound” (1994) e “Hand it over” (1997) si
registra anche lo sporadico ritorno di Murph alla batteria, ritorno che però
non assume mai la valenza di reintegro in pianta stabile nella struttura del
gruppo. Verso la fine degli anni ’90, Mascis decide di mettere la parola fine
all’ormai sfumato progetto dei Dinosaur Jr., voltando pagina col proprio
progetto solista J. Mascis And The Fog
(1999).
Le basi per la inaspettata reunion del terzetto nel corso della metà
degli anni ’00 vengono poste quando Mascis e Barlow si riavvicinano grazie
all’apparizione di Mascis, come guest star invitata da Barlow, ad alcuni
concerti dei Sebadoh. Nel 2005, Barlow e Mascis rimettono in pista il nome
Dinosaur Jr. per partire in tour in Europa. La rinnovata collaborazione non si
riduce alle sole esibizioni in tour, ma partorisce dopo tanti anni anche del
materiale inedito che irrompe con l’album “Beyond” del 2007 edito dalla Fat
Possum records, in cui dopo tanti anni ricompare il terzetto Mascis/Barlow/Murph
con una rinvigorita energia, supportata stavolta anche da una notevole maturità
musicale e nel songwriting. Seguono rispettivamente, nel 2009 e nel 2012, le
ultime 2 produzioni per la Jagjaguar “Farm” e “I bet on sky”.
Ride & Rock
"Per lui provo il rispetto e l'affetto che un padre prova verso suo figlio. E’ uno dei più grandi chitarristi Blues che si possano trovare oggi in circolazione. Mi rende orgoglioso” B.B. King
Mai diffidare dei preziosi
consigli di un signor musicista. È buona regola che ho sempre seguito sin da
bambino. E quando un grande chitarrista mi ha suggerito di prestare attenzione
a Ronnie Earl, ho deciso di mettermici d’impegno. Ho sviscerato la sconfinata
discografia di questo fenomenale chitarrista, e tant’è stato… Oltre due mesi di
intenso ascolto per arrivare, in maniera pressappoco esauriente, a decifrarne
l’impressionante varietà di panorami musicali esplorati nel corso della
trentennale carriera, dapprima con i Roomful Of Blues nella seconda metà degli
anni ’70, e poi con la “creatura” esclusiva, i mitici Broadcasters, per tutto
l’arco degli anni ’80 sino ad arrivare ai giorni nostri. Ronnie ha rivisitato
soprattutto il blues della scuola di Chicago a lui tanto cara, ma ha toccato
anche sostanzialmente – ed a mio parere esaurientemente – il mondo dei ritmi
latini, del jazz e del rock ‘n’ roll. Resta a mio avviso uno dei musicisti più
completi mai esistiti sulla scena musicale americana e mondiale.
Ronald Horvath nasce a Queens,
New York, il 10 Marzo del 1953. Da bambino la famiglia prova, senza il benché
minimo successo, ad avvicinarlo allo strumento del pianoforte. Imbraccia la
prima chitarra in età non proprio precoce, a 20 anni, mentre già frequenta il
college di storia americana a Long Island, ma si afferma quasi alla velocità
della luce come uno dei giovani chitarristi più promettenti della locale scena
del New England. La svolta musicale della sua vita si compie durante un
concerto di Muddy Waters al Jazz Workshop, un piccolo live club di Boston, dove
Ronnie si rende conto di avere un sangue che ribolle all’ascolto dei vecchi
standard blues… è da lì che decide di sostituire la sua Martin con una Fender
Stratocaster, e di forgiare un sound che lo renderà unico in tutto il mondo
negli anni a venire. Il suo stile risentirà del profondo ascolto e studio di
maestri del blues come come Otis Rush, Magic Sam, Guitar Slim, Jimmy McGriff, Thelonious
Monk, John Coltrane e Wes Montgomery.
Il Nostro si introduce alla
professione part-time di musicista, alternandosi all’attività di insegnante di
sostegno nelle scuole, suonando allo Speakeasy di Cambridge, come chitarrista
di appoggio a mostri della scena blues di passaggio in loco, come il
chitarrista Otis Rush e l’armonicista big Walter Horton, o ancora come la
cantante Koko Taylor grazie alla quale, dato anche l’instaurarsi di una grande
amicizia, Ronnie inizia a farsi conoscere anche nell’ambiente di Chicago. A
Boston, Ronnie diventa dapprima chitarrista titolare della band Johnny Nicholas
& The Rhythm Rockers, e poi membro fondatore del progetto Sugar Ray &
The Blue Tones, assieme all’armonicista Sugar Ray Norcia, col quale collaborerà
anche negli anni seguenti. Nel 1978, dopo un periodo sabbatico dal lavoro di 8
mesi, passato nel profondo Sud a studiare i segreti del blues tra i locali di
Atlanta, New Orleans ed Austin, Ronnie decide di abbandonare l’attività di
insegnante e di dedicarsi esclusivamente alla professione di musicista. È in
questi anni che Ronnie inizia a registrare come session man con gente del
calibro di Sunnyland Slim, Johnny Nicholas e Sugar Ray. Nel 1979 Muddy Waters,
durante un concerto, lo invita a salire sul palco per una jam session e, non
ricordandosi al momento il suo cognome, lo chiama semplicemente “Ronnie”… la
leggenda vuole che questo episodio spingerà il Nostro a modificare il suo
cognome d’arte in “Earl”, dalla vena più bluesy, in onore a Earl Hooker
chitarrista slide tra i suoi preferiti. Sempre in quell’anno, Ronnie si unisce
alle fila della big band Roomful Of Blues, con la quale militerà fino al 1988.
Saranno anni caratterizzati da un grandissimo successo commerciale nonché da
un’ascesa della sua figura come chitarrista blues, ma anche da una massacrante
attività di touring e di produzione discografica. In questi anni Ronnie finirà
nel baratro della droga e dell’alcool, anche e forse soprattutto a causa degli
elevatissimi ritmi di vita e del turbine di conoscenze di malaffare che
caratterizzeranno l’esperienza RoB.
Nel 1983, ancora nel pieno dell’attività
con i Roomful Of Blues, Ronnie inizia ad avventurarsi nelle sue due prime
produzioni “soliste” assieme al cantante Kim Wilson, Darrell Nulish e Sugar Ray
Norcia: escono i due album “Smokin’” e “They Call Me Mr. Earl”. Sono album che
ricalcano molto le sonorità classiche del blues di Chicago esplorate dai
Roomful Of Blues, tuttavia già con molti spunti originali ed interessanti. In Smokin’ abbiamo gemme come “Ronnie Johnnie”, bel blues trascinato e
pieno di groove che mette in mostra il suo stile chitarristico, allo stesso
tempo tecnicamente di spessore e sporco quel che serve per suonare il blues;
oppure “My home is a prison”, lentone
dove Ronnie si alterna meravigliosamente all’armonica di Sugar Ray e alla voce
distorta di Kim Wilson; o ancora “Sick
and tired”, bel rock ‘n’ roll alla carl Perkins tutto da ballare, piuttosto
che “San-ho-zay”, originalissimo riff
in cui già si intravede una notevole vena innovativa di Ronnie nell’esplorare
il blues, seconda forse solo alla genialità del contemporaneo Stevie Ray
Vaughan. They Call Me Mr. Earl è un
album più prettamente blues di Smokin’, d’altra parte leggermente più
sperimentale. Ricalca atmosfere da fumoso bar di periferia di Chicago, col
pianoforte che svolge un ruolo più prominente che nel precedente lavoro. “You give me nothing but the blues” è uno
standard magistralmente eseguito; “You’ve
got me wrong” ci spinge verso il delta del Mississippi e ricorda un pò le
atmosfere degli avi Robert Johnson e Son House, oltre allo stile slide di
Junior Kimbrough. “No more chances” è
un grintosissimo shuffle in cui la fa da padrone ancora una volta
l’accompagnamento di pianoforte e la voce di Kim Wilson. Fantastica a mio
avviso anche la lenta “Drinking and
thinking” con l’hammond in sottofondo e Ronnie che domina con le sue calde
note alla Gary Moore.
Nel 1988 Ronnie lascia i Roomful
Of Blues in via definitiva e al contempo fonda i Broadcasters, che esordiscono
live il 31.10.1988 al Last Call di Providence, con Darrell Nulisch alla voce,
Jerry Portnoy all’armonica, Steve Gomes al basso e Per Hanson alla batteria.
Sempre di quell’anno è il primo album dei Broadcasters, Soul Searching. In questo album, rispetto ai primi lavori di
Ronnie, emerge la pulizia dello stile, il lavoro d’insieme più che il valore
dell’individualità del leader
(altissima), e la cura per le dinamiche. Album che include al proprio
interno autentici pezzi d’autore quali Backstroke
(chitarra alla guida), It’s my soul
(gran cavalcata blues), Blues for Bone
(lentazzo divinamente arrangiato e pieno di saliscendi) e Sufferin’ (altro lento che lascia sfogare Ronnie in soli pieni di
espressività).
L’inizio degli anni ’90 viene
salutato dai Broadcasters con l’energico Peace
Of Mind. Qui troviamo pezzi dalla vena ballabile come I want to shout about it o Bonehead
too, piuttosto che lenti strappalacrime come Wayward angel. In generale, anche questo quarto lavoro appare di
altissima qualità. Sempre dello stesso anno è I Like It When It Rains, album in cui fanno il loro ingresso nella
band Ron Levy al piano e voce e Michael Ward al basso; questo album è forse
leggermente sottotono rispetto ai precedenti, soprattutto a livello
compositivo, ma i pezzi continuano ad essere comunque magistralmente eseguiti,
e senza la minima pecca tecnica. Nel 1991, con il sesto lavoro in studio Surrounded By Love si unisce ai
Broadcasters il grande amico di Ronnie Sugar Ray Norcia all’armonica, oltre a
Tony Zamagni all’hammond e Dave Maxwell al piano. In questo album è da
segnalare la bellezza di Kathy’s theme,
shuffle da energia allo stato puro, piuttosto che Blind love, Off the hook
o la title track Surrounded by love.
Sono produzioni tracciate sempre sulla strada maestra del blues di Chicago, ma
Ronnie si appresterà negli anni immediatamente successivi ad aggiungere nel suo
repertorio ingredienti decisamente più eterogenei.
A partire forse già da Still River del 1993, dove i
Broadcasters realizzano la loro prima opera completamente strumentale,
esplorando elementi di ritmi latini (si ascolti Szeren, gran bella bossanova) e jazz (Equinox, Wednesday night at
The Bull) grazie anche all’introduzione di musicisti molto versatili come Bruce
Katz all’organo e Rod Carey al basso. Oltre naturalmente agli immancabili bluesacci (Chili-ba Hugh).
Language of the Soul del 1994 è un album dove i Broadcasters
switchano in maniera quasi dirompente verso il jazz, pur preservando una forte
vena blues di fondo, e che conferisce loro una notorietà nonché un successo
commerciale forse mai raggiunti prima. Ci sono pezzi come Eddie’s gospel groove, Through
floods and storms, Blue guitar e Bill’s blues che sono tra i più belli in
assoluto mai realizzati dalla band. Blues Guitar Virtuoso – Live in Europe del
1995 immortala il successo del tour oltreoceano dello stesso anno, e Grateful Heart - Blues and Ballads del
1996 è una grande opera jazz-blues con una fantastica dedica – fra gli altri
pezzi – all’indimenticabile idolo di Ronnie che è Duane Allman (Skyman). Sempre del 1994 è il bell’album
live con Jimmy Rogers (Same old blues, Got my mojo working e altri fantastici pezzi eseguiti dal vivo).
Il 1997 è l’anno di The Colour of Love, a mio avviso il più
bell’album di Ronnie Earl nonché uno dei più grandi album blues di sempre,
album pieno di ospiti in sala di registrazione (Hank Crawford, Jaimoe e Gregg Allman
degli ABB, Mark Quinones) e prodotto da Tom Dowd (Aretha Franklin, Allman
Brothers, Eric Clapton). Spiccano in questo album Bonnie’s theme (che sembra un pezzo del Santana di Abraxas), Everyday kinda man con Gregg Allman alla
voce, ‘Round midnight, Anne’s dream meravigliosa ballata, Heart of glass ma soprattutto
l’insuperabile Mother angel (sezione
ritmica indescrivibile, atmosfere chitarristiche che sembrano un misto fra
Santana e ABB, nel complesso un risultato unico, ascoltare per credere).
Nel 2000 arriva Healing Time, ed i Broadcasters si
presentano con una serie di sostanziali cambi di formazione con Anthony Geraci
(organo e tastiere), Mark Greenberg (batteria) e il ritorno di Michael Ward al
basso. In questo album si coglie un certo ritorno alle atmosfere blues di
inizio carriera della band (Catfish blues,
Blues on a sunday, Lunch at R&M's) ma anche il
prosieguo dell’esplorazione di temi jazz (Churchin’,
Idle moments, Thembi).
L’inzio del nuovo millennio
rappresenta per Ronnie un difficilissimo periodo personale, in cui il Nostro
deve aver a che fare con seri problemi di depressione. Il 2001 segna il
tentativo di redenzione dal baratro con un album di collaborazioni con una serie
di amici-colleghi (tra gli altri, il cantante e armonicista Kim Wilson dei
Thunderbirds, il batterista Levon Helm della Band, il tastierista David Maxwell
e la cantante Irma Thomas), Ronnie Earl
& Friends, con pezzi da non perdere come All your love con Luther Johnson, Might fine boogie con James Cotton e Kim Wilson all’armonica, One more mile, Bad boy e Marie.
Consiglio vivamente l’ascolto di
tutta la discografia di Ronnie Earl, anche relativamente agli album realizzati
nel primo decennio del 2000: I Feel Like
Goin’ On (2003) con la meravigliosa Little
Johnny Lee ma anche Donna e Blues for Otis Rush, Now My Soul (2004) con la lenta
cavalcata blues Double trouble, The Duke Meets The Earl (2005) con Duke
Robillard (West side shuffle, Two bones a pick, Lookin for trouble, A soul
that’s been abused), il live Hope
Radio (2007), Living in the Light
(2009) con la bella ballata What can I do
for you e il bluesaccio Blues for the
South side, Spread the Love
(2010) con Backstroke, la
sperimentale Patience e Spann’s groove, e infine il recentissimo
live Just for Today (2013) con spettacolari
reinterpretazioni di grandi classici quali Heart
of glass, Rush hour, Equinox e Robert Nighthawk stomp.
Un gran chitarrista, dalla
sconfinata produzione discografica, la cui conoscenza approfondita non dovrebbe
mai mancare tra gli appassionati veri del genere blues.
Ronnie And Roll
D.M.
DISCOGRAFIA
1983 Smoking
1984 They Call Me Mr. Earl
1988 Soul Searching
1990 Peace of Mind
1990 I Like It When It Rains
1991 Surrounded by Love
1992 Test of Time
1993 StillRiver
1994 Jimmy Rogers with Ronnie Earl and the
Broadcasters (Live)
Non mi sarei mai imbattuto nei Turchi se non fossi stato uno di quei
tipacci che leggono il Busca in maniera più che assidua. Ma trattandosi di un
dato di fatto - rifornisco costantemente le mie energie musicali nutrendomi di
recensioni di una delle poche riviste (forse attualmente l’unica in Italia) che
considero di un certo livello - nel numero di Giugno 2013 un'articolo niente
poco di meno che del mitico Paolo Carù mi incuriosisce a tal punto da spingermi
ad acquistare tutti e 3 i digital downloads, ad oggi esistenti, di questa Band
proveniente dalle contee di Panola, Tate e Marshall, profondo Sud, Mississippi.
L’accostamento fatto ai Turchi dal Busca è al sound di grandi esponenti del blues del
delta, andati ed attuali, quali Fred McDowell, R.L. Burnside, Junior Kimbrough
e Kenny Brown, nonché ai North Mississippi Allstars di Luther Dickinsonn ed ai
Drive-By Truckers. Una formazione che nasce alla fine del 2011 e che, come in
una fulminea pellicola, produce un album live di ottima fattura, nonché un
album in studio full-length più un EP praticamente in meno di due anni.
Ma andiamo con ordine.
Formazione che ruota attorno alla
figura del suo leader Reed Turchi (composizione
dei pezzi, voce e chitarra solista) - padrone della tecnica slide e delle scale
blues al punto da rendere tali elementi la costante del sound della Band - che
unisce le forze con l’ottimo batterista Cameron
Weeks, dal tocco “Bohnamiano” e presente, in grado di conferire senza
troppi fronzoli un groove bello “dritto” ed efficace alle canzoni infilate
all’interno di questi tre dischi. Attorno a loro si alternano una serie di
altri musicisti; in particolare si avvicendano al basso, in un via-vai
piuttosto veloce, vari musicisti della scena locale prima di arrivare all’assestamento
attuale con Andrew Hamlet. Il power
trio così composto si avvale poi della collaborazione di John Troutman a sostegno di Reed Turchi alla seconda chitarra e
pedal steel, e di Brian Martin
all’armonica.
E veniamo ad alcune
considerazioni sul sound.
L’ascolto dei tre album è
senz’altro piacevole. Delta blues e southern rock sono le etichette che senza
dubbio mi sento di attribuire alle loro sonorità. La voce di Reed Turchi è
molto aspra e “cattiva”, mi fa venire in mente quella di Dan Auerbach dei Black
Keys, o meglio ancora quella di Fredrick "Joe" Evans IV dei Left Lane
Cruiser, forse un po’ meno strozzata dal whiskey di quella del secondo. Ma i
Turchi sono tecnicamente più dotati di Band come i Left Lane Cruiser, i Black
Moses o i Bassholes (non a caso sto facendo un accostamento ad esponenti del
c.d. “punk blues”), che prendono a prestito le sonorità del delta per tradurre
in chiave vintage le loro radici essenzialmente punk. Non è un violentare le
chitarre ed alzare il livello dei decibel fino a rasentare atmosfere da live
dei Sex Pistols, i Turchi sono più puliti e suonano bene, prendono il blues e
lo declinano nel migliore dei modi, in chiave “moderna” se vogliamo,
preservandone però la durezza e l’efficacia. Lo suonano in modo “serio”, se
vogliamo. Effettivamente il paragone ai North Mississippi Allstars calza molto
bene, ed in un ideale spettrometro che pone agli estremi le influenze dei
Turchi, metterei i Black Keys a sinistra ed i NMA a destra, con una forte
tendenza verso il polo di destra.
La prima produzione dei Turchi è “Road ends in water” (2012), album registrato
in studio con la collaborazione di Luther
Dickinson alle chitarre. Come scrivevo, pezzi molto “dritti” ed essenziali
con una sezione ritmica efficace ed affiatata. Colpiscono, fra gli altri, Dr. Recommended (Satisfaction Guaranteed),
pezzo “piantato a terra” e “strisciante”, e Junior’s
Boogie, da “piangi sulla tua birra” che mi riporta alle atmosfere dei
Little Feat di Lowell George. In generale, voti ottimi per tutte le canzoni,
purchè la predisposizione all’ascolto di questo album non sia quella di
attendersi qualcosa di originale e di nuovo. I Turchi suonano il blues e lo
sanno fare bene, rivisitano con grande tecnica capitoli già scritti, ci mettono
qualcosa del loro, ma non inventano l’acqua calda; capacità che peraltro, di
solito, non è prerogativa dell’appassionato ascoltatore di southern rock e
delta blues, che va piuttosto alla ricerca di Band come questa che hanno le
credenziali per saper ripercorrere con sicurezza le polverose strade, già
battute dai Grandi Maestri, del Blues con la B maiuscola.
Discorso che si può riproporre in
maniera quasi del tutto integrale dopo l’ascolto di “Live in Lafayette” (2013), registrato dal vivo all’Atmosphere di Lafayette. A credito di
questo album c’è da evidenziare che si
tratta di un live registrato assolutamente in presa diretta e senza il minimo
ritocco, quello che si sente è quello che viene fuori dal cuore di questi
cinque intrepidi bluesmen avvezzi al mestiere. Non menano affatto il can per
l’aia, i Nostri, vanno sparati al dunque con pezzi come Big Mama’s Door (pezzo di apertura, bellissimo riff di Reed Turchi
e stomp trascinante di Cameron Williams), Don’t
Let The Devil Ride (mettiti in macchina e guida in una strada senza luci
senza aver rigorosamente idea di dove tu stia andando), e Shake ‘Em On Down (qui sembra di essere sotto il palco dei North
Mississippi Allstars a Bonnaroo 2004, quando registrarono un live
dall’intensità simile, e forse sì anche superiore, quell’“Hill Country Revue”
che rimarrà per sempre uno dei più grandi album live della storia del Southern
Rock).
Ascolto infine l’EP “My Time Ain’t Now” (2013) dove i
Nostri cercano di sperimentare qualcosa di leggermente diverso dal puro blues
del delta. Colgo un maggior impegno lirico, mi piace fra gli altri la ballata Any Other Way. C’è oltre al blues una
buona dose di folk, che riporta alcune atmosfere dell’EP quasi vicino a Bob
Dylan e a The Band.
Nel complesso sono contento,
ancora una volta, di aver comprato il Busca… che finchè c’è da scoprire nuove
Bands dalla penna di chi ne sa, c’è da fidarsi. Una Band che non passa
inosservata, e che vale la pena sedersi ad ascoltare se ti ci imbatti in un
piccolo live club di periferia sperduto tra i sobborghi metropolitani di una
qualche città del profondo Sud. O magari far partire l’album mp3 acquistato su
Bandcamp, comodamente seduti sulla poltrona di casa, o infine avendo la fortuna
di ritrovarseli in Italia, come hanno fatto nel 2013 nel corso del loro
brevissimo tour in Europa (tra le altre date italiane, in locali come l’Unaetrentacinquecirca
di Cantù, e l’Init di Roma, ottobre-novembre 2013).
Provo una certa emozione nel recensire questa Band, perché si tratta della bio che più volte nella mia vita ho provato a scrivere per poi successivamente averne perso ogni traccia di semilavorato, così da doverla ricominciare di nuovo, n (dove n in ambito non matematico sta per “non so quante”) volte. Rileggo fieramente il post sul mio blog quasi fosse il coronamento di un’impresa epica.
Detto ciò, parliamo di questi quattro ragazzi di Yukon che tra la seconda metà degli anni ’90 e tutto il primo decennio del 2000 si sono conquistati una discreta fetta di notorietà nel panorama country-rock americano, soprattutto all’interno dell’area Texas-Oklahoma, proponendosi fra i maggiori elementi di spicco di quello che fu definito il filone “Texas Dirt” del new country contemporaneo.
Identifichiamo subito il genere: Country-rock bello energico e orecchiabile, ben suonato ma oggettivamente senza particolari pretese, portato avanti seguendo quella che a mio avviso è una giusta linea-guida, non solo in ambito musicale, e cioè “play simple”, “fai le cose semplici”. Potrei partire on the road e stare fuori un mese guidando giorno e notte riempiendomi la mia chiavetta mp3 solo con l’intera discografia dei Cross Canadian Ragweed. Pezzi da fischiettare e di cui ricordare i semplici riff chitarristici; chi ha ascoltato, o ascolta i Reckless Kelly piuttosto che Dierks Bentley o Stoney LaRue, sa sicuramente inquadrarli all’interno di questo cluster di Band.
Il nome Cross Canadian Ragweed è una rielaborazione di quelli dei tre membri fondatori della Band, Grady Cross (Guitars), il front-man nonché elemento di maggior spessore compositivo Cody Canada (Vocals, Guitars), e Randy Ragsdale (Drums). Nulla a che vedere, dunque, con l'acronimo dei leggendari Creedence Clearwater Revival, nemmeno da un punto di vista di affinità musicale (Cross più vicini al pop rock di quanto non lo fossero i Creedence, che per una larga parte della loro produzione discografica si sono tenuti sempre all’interno del genere country blues).
I Nostri si formano come detto a Yukon, Oklahoma, nel 1994, ma decidono ben presto di stabilire il loro headquarter nella città universitaria di Stillwater, da molti definita la “Austin del Nord” grazie al fermento artistico che si respira in città. Conquistano ben presto un massiccio seguito in ambiente studentesco e trovano ospitalità in numerose trasmissioni radio locali, grazie alle quali il loro primo album “Carney” (1998) arriva già supportato da un buon giudizio della critica e recepito da un folto seguito di appassionati pronti ad acquistarlo. Spiccano in questo album i pezzi Hey Hey, allegra cavalcata al galoppo in cui la fanno da padrone i bei fraseggi di chitarra tra Canada e Cross, Help Me (Get Over This Mountain) anch’essa orecchiabile e semplice, le due ballad strappalacrime Jenny e On You Own, e infine quello che a mio avviso è il pezzo più bello e architetturato dell’album, Proud Souls che parte con un’intro folk alla Bob Dylan e si distende in una ghost track di animo country alla Chris LeDoux.
Sulla scia del buon successo commerciale ottenuto con il primo album, esce l’anno successivo “Live And Loud @ The Wormy Dog Saloon” (1999). L’etichetta indipendente Underground Sound, da essi stessi gestita, produce anche il secondo album in studio “Highway 377” (2001). Album più rockeggiante del primo, è ben identificabile in pezzi più “nervosi” come Forty-Two Miles o Long Way Home, oltre a del materiale anche questa volta orecchiabile e “da radio airplay” come la title-track Highway 377 o Back Around.
Il terzo album in studio, l’omonimo “Cross Canadian Ragweed” (2002), dedicato a Mandy Ragsdale sorella del batterista Randy e morta in un incidente stradale, ottiene un successo su larga scala a livello nazionale. E’ un album decisamente bello e riuscito, probabilmente il migliore dei CCR se dovessi sbilanciarmi, vario dal punto di vista degli ingredienti utilizzati, ma forse nel complesso più “rock” degli altri. Basti ascoltare Don’t Need You che sembra quasi un pezzo dei Black Crowes… L’album contiene anche delle ballad assolutamente fantastiche come ad esempio Carry You Home, e richiami all’amato country rock che li ha resi popolari in tutto il Sud, come Walls Of Huntsville.
Successo commerciale che continua anche con l’album seguente “Soul Gravy” (2004), che proietta i quattro di Yukon al quarto posto della classifica Billboard. Tuttavia a parte il successo di vendite, a mio avviso, si tratta di un album che rispetto alle produzioni precedenti li vede un po’ più sottotono e con meno ispirazione; salverei solo due o tre pezzi, in particolare Hammer Down, Flowers (bellissima ballad) e Too Far Gone (una sorta di “Jam Session in studio”, ascoltare tutto fino anche alla ghost track!).
Nell'ottobre 2005 la Band pubblica l’album “Garage” che grazie al singolo "Fightin 'For" li fa volare nella top 40 delle classifiche nazionali, raggiungendo la posizione n.39 , così come "Dimebag", un omaggio a Darrell Abbott chitarrista fondatore dei Pantera. A mio avviso i pezzi più belli dell’album sono Blues For You e la riuscitissima cover di Bo Diddley Who Do You Love, in cui finalmente i Nostri sfoggiano a tutti gli appassionati di Southern come me, la capacità di saper avere a che fare con le slide e con il Blues del Delta.
I CCR navigano oramai a gonfie vele, forti anche di un’attività di Touring instancabile che verrà immortalata dall’album doppio del 2006 “Back To Tulsa - Live And Loud @ Cain’s Ballroom”, registrato “in casa Oklahoma” il 31 ottobre 2006. La Band ha la possibilità di duettare, in questi anni di notevole successo commerciale, con star della musica country come Dierks Bentley e Stoney LaRue, piuttosto che Mickey & The Motorcars e Reckless Kelly.
Nel 2007 i CCR tornano in studio a San Diego, California, per registrare “Mission California”, la loro sesta produzione di inediti. Qui ci sono spunti interessantissimi che avvicinano i CCR ai Reckless Kelly piuttosto che a Dierks Bentley, siamo in ambito country rock in cui i ballerini di line-dance possono sfoggiare i loro passi a suon di piroette e batter di stivali al suolo: ascoltare Record Exec, e I Believe In You (il testo recita “I believe in kharma, I believe in soul, I believe in heaven, I believe in rock ‘n’ roll… I believe in wrestling, I believe in sleep, I know I ought to quit now, but I believe I’m in too deep!!!”).
Il 2009, quindicesimo anno di attività della Band, vede infine l’uscita del settimo e ultimo album in studio, “Happiness And All The Other Things”. Bellissimo il pezzo Blue Bonnets, ballad che Cody Canada dedica al suo figlio maggiore Dierks.
Nel maggio 2010, infatti, i CCR annunceranno una pausa dalla loro attività di touring nonché di produzione discografica. In un comunicato stampa, il batterista Randy Ragsdale spiegherà la motivazione “ufficiale” per cui la Band prenderà tempo dai palcoscenici e dagli studi: "In questo momento abbiamo bisogno, io in particolare più degli altri, di stare a casa con le nostre famiglie, per quanto mi riguarda soprattutto a causa del fatto che mio figlio JC sta soffrendo di problemi di autismo”. Ragsdale dichiarerà anche di aver spronato gli altri a continuare senza di lui, ma Cody Canada, il leader della band, ha controbattuto: “Abbiamo sempre detto fin dall'inizio, siamo CCR se uniti in 4, o non lo siamo affatto”. La realtà che affiorerà in seguito, tuttavia, sembrerà essere un'altra… il gruppo si è sciolto soprattutto a causa di divergenze artistiche non meglio specificate e di contrasti sulla gestione “di business”, delle finanze della Band, che ha messo in particolare Ragsdale in opposizione agli altri. Lo dichiarerà Cody Canada in un’intervista del 2010: “Volevamo tutelare il nome della Band, ma c'era una persona che non era felice da un punto di vista artistico e di business, riguardo come stavano andando le cose”.
Nel settembre 2010, i CCR organizzano il loro ufficiale “Last Call Show” al Joe’s Bar di Chicago, IL, tutto esaurito, dichiarando che “per quanto ci riguarda, questo sarà il nostro ultimo concerto”.
Dopo lo scioglimento dei Cross Canadian Ragweed , Cody Canada e Jeremy Plato (bassista dei CCR) continuano tuttavia a collaborare instradando un progetto molto simile a quello dei CCR, The Departed, avvalendosi del batterista Dave Bowen, del chitarrista Seth James e del tastierista Steve Littleton; i cinque pubblicheranno subito il loro album di debutto nel giugno 2011. Sempre nel 2011, il batterista Randy Ragsdale torna a Yukon e si mette a suonare con Stoney LaRue. Gary Cross, infine, si mette a gestire un locale live a Yukon.
Ride & Rock
D.M.
Discografia
Carney (1998)
Live @ The Wormy Dog Saloon (1999)
Highway 377 (2001)
Cross Canadian Ragweed (2002)
Live And Loud @ Billy bob’s Texas (2002)
Soul Gravy (2004)
Garage (2005)
Back To Tulsa: Live And Loud @ Cain’s Ballroom (2006)
Si potrebbe imbastire un più
esauriente discorso per una Band come i Black Creek - un solo album ma di sostanza - che non per altre dalle produzioni discografiche incentrate
sulla quantità - ma mediocri - a cavallo tra vari decenni...
I Black Creek, vale a dire: il volo di una farfalla che muore accecata dalla
luce.
Un solo album, "Live From Gainesville" registrato dal
vivo il 25 Aprile del 1995 all’Acrosstown Repertoire di Gainesville, nella loro
nativa Florida. 9 pezzi al confine tra Allman Brothers Band e Sea Level, una
lezione di come si suona in Jam, architetture melodiche perfette e totale
spazio all’improvvisazione che ha deliziato gli appassionati di Southern Rock (come
me) imbattutisi - quasi per caso - nell’incontro con questa formazione.
Lato mio, conobbi i Black Creek
alla fiera del disco usato e da collezione di Bologna del 2010. Quella mattina ero
a caccia di rarità Southern già da una manciata di ore, in giro al setaccio
tra i banchetti più “di nicchia” della fiera… I banconisti che hanno roba buona,
e che possono interessarti, li riconosci al volo da quell’espressione navigata
e sorniona sotto la fronte stempiata, barba incolta, di qualche nerd-musicale
di mezza età. Incoraggiante percepire un interlocutore dalla calata veneta o
toscana, ma soprattutto emiliana; i migliori intenditori si trovano da quelle
parti, rigorosamente provenienti dalla provincia. Poi, una volta ingaggiato il
discorso e la ricerca del consiglio, devi andare un po’ sulla fiducia, e
constatare a casa se il tuo sesto senso ti ha aiutato ancora una volta oppure
no.
I nomi della line-up che leggo
sulla cover del cd, comunque, non mi sono nuovi e mi incoraggiano ad avere
delle ottime aspettative. Leggo della presenza di Cameron Williams (Guitars/Vocals)
e di Richard Proctor (Drums), successivamente in forza agli ottimi Tishamingo, Band che coniuga una vena blues alla Derek Trucks con testi alla Ronnie Van Zant, e che mi viene spontaneo accostare agli Steepwater piuttosto che ai North
Mississippi Allstars. Poi leggo con sorpresa che il chitarrista solista è uno
dei miei preferiti Sliders del Sud, Ryan Newell attualmente in forza ai Sister
Hazel, sicuramente più commerciali ma non meno musicalmente dotati delle Bands
appena citate. Non conosco invece Randy Goodgame (Piano/Hammond),
successivamente avventuratosi in una carriera solista nell’ambito del Christian
Rock, e Jason McDaniel (Bass), oggi proprietario di uno studio di registrazione
a Boulder, CO, The Coupe Studios. Leggo che prima di questo live, i Black Creek
avevano inciso un solo demo tape, un “Self titled” di 4 pezzi del 1993 (disponibile
solo su musicassetta!), oggi letteralmente introvabile.
L’ascolto del cd è una bomba: 55
minuti di Jam session senza la minima falla, sembra di riascoltare una
declinazione ben riuscita di “Live at Fillmore East” degli ABB… “Confused blues”
dà subito spazio alla grande tecnica chitarristica di Ryan Newell, alla vena
improvvisativa di Randy Goodgame al piano ed alla potente voce “alla Jimmy Hall”
di Cameron Williams… “Movin’ on” è più orecchiabile e distesa, ricorda le
sonorità di “Jessica” degli Allman, tanto per citarli per la
cinquecentesima volta. “Shakerag hollow” sembra a tratti quasi un pezzo di Pat
Metheny, lascia spazio alla forte vena jazzistica del quintetto. Ma il cuore
dell’album sono a mio avviso i due pezzi centrali, da cinque stelle: la
lunghissima cavalcata “Black Creek Jam”, 10 minuti e mezzo letteralmente
perfetti e senza sbavature, e “Peachy clean”, ovvero l’animo country alla
Marshall Tucker dei Nostri. Non può mancare una ballad strappalacrime come “Southern
spirits” e un’altra epica Samarcanda improvvisativa come “Done enough”. Ryan
Newell scatena di nuovo la sua slide in “Old man”, ed infine i Nostri chiudono
con distensione in un’ultima “nostalgica” jam di 7 minuti e mezzo in “Tennessee
mountain angel”.
Il live è dall’esecuzione semplicemente
perfetta. Peccato i Black Creek non abbiano registrato nulla in studio e non
abbiano continuato sulla falsariga di questo progetto, magari impostandolo
anche solo come “Band da vacanza” a margine dei più riusciti progetti
Tishamingo/Sister Hazel etc…
Se piace il disco (non chiedetemi
come trovarlo, io ci sono riuscito quasi per caso, magari su amazon si trova qualcosina fate un po’ voi…) consiglio
l’ascolto di una Band simile chiamata The Grapes, in particolare nell’album “Private
stock”, sempre del 1995, sempre un southern rock in odor di Allman Brothers. Il
vantaggio di questa Band è che almeno potrete trovare una produzione
discografica un po’ più consistente rispetto a quella dei Black Creek, 4 album
tra il 1991 ed il 1997. Lo svantaggio è che anche il materiale dei Grapes, come
quello dei Black Creek, è pressoché introvabile.