mercoledì 27 agosto 2014

Oggi parliamo di... BROUGHT LOW


THE BROUGHT LOW
Right on time (2006)
Small Stone
♫♫♫♫♫

Ci sono Bands che bruceranno la loro esistenza all’ombra di un utopico ed irraggiungibile successo. Bands che, quale unico premio alle loro fatiche, avranno per l’eternità nient’altro che un fugace pasto alla buona dentro una squallida stanzetta d’albergo. Relegate a girare gli States a bordo di un vecchio Volkswagen Transporter scassato, indugeranno sulla strada tra piccoli e fumosi club, misti d’una manciata di alcolisti anonimi e pochi irriducibili appassionati. I loro album patiranno un’infinita serie di ristampe, senza per questo riuscire a vendere una sola copia. Ma è fuori dal tempo e lontano dallo spazio, di notte, tra la luce dei lampioni che illumina la linea di mezzeria di un’autostrada solitaria e il tachimetro impolverato che spinge i pneumatici ai limiti del concesso, che il loro sound trova dimora ed esprime appieno il proprio – trascurato – potenziale. Prodigheranno piccole gemme che sono storie di sconfitta, di solitudine ed emarginazione sociale, aneddoti di eterna insoddisfazione verso tutto ciò che ci circonda e che inevitabilmente sfugge al nostro controllo.

La copertina di
Right on time (2006)
Brought Low, guidati dal talentuoso chitarrista e cantante Benjamin Howard Smith, sono una di queste Bands. Newyorkese di provenienza ma decisamente “southern” in quanto a stile, la formazione completata da Nick Heller alla batteria e da Robert Russell al basso porta a maturazione il proprio sound a 5 anni di distanza dall’omonimo album di debutto “The Brought Low” (2001) distribuito dalla Tee Pee Records, album in cui avevano già impostato un primo timido, discreto tentativo di riproporre in chiave post-11 settembre un old-school rock alla Aerosmith-prima-era. Con questo secondo lavoro, “Right on Time” (2006), che segna l’inizio della (speriamo lunga e felice) collaborazione con la Small Stone Records (Dixie Witch, Five Horse Johnson, Green Leaf, Sasquatch), i nostri mettono a segno un vero e proprio colpo da biliardo ascrivibile a tutti gli effetti tra i piccoli capolavori di nicchia da portare nell’isola deserta dei naufraghi del Southern Rock. L’album è magistralmente congegnato dal primo all’ultimo brano, con sonorità caratterizzate da un’impronta sobria ma decisamente rocciosa, tra accattivanti riff di chitarra che ti lasciano quella gustosa sensazione dell’essere senza tempo ed una sezione ritmica che intesse un groove incessante, “pieno” e perfettamente amalgamato ai temi-guida architettati da Smith. Smith che, tra l’altro, rinviene tutto il rinvenibile da una voce – diciamoci la verità – non indimenticabile ma pur adattissima ai temi lamentosi e tormentati del disco, fatti di amore viscerale per la strada, di notti insonni consumate all’angolo di una desolata banchina della subway di New York, o agitandosi tra i cuscini del letto d’una squallida periferia.


Robert Russell (bass)
A Better Life apre l’album come fosse un pugno allo stomaco; la cupa chitarra acustica di Smith introduce un accattivante e coinvolgente riff chitarristico, poderosamente supportato da un duo basso-batteria che cavalca il pezzo tra stacchi degni d’una perfezionata riproposizione del Red Album dei Grand Funk Railroad. La canticchiabile Hail Mary ci conduce verso un ambiente più “vintage”, ispirandosi a un’impronta in stile Lynyrd Skynyrd à-la Street Survivors, con un pianoforte che contribuisce a rendere il pezzo decisamente più orecchiabile, pur in presenza della chitarra di Smith che continua a farla sempre ed inevitabilmente da padrone. Ma Hail Mary è un pezzo ingegnosamente posizionato allo scopo di far balzare dalla sedia il poveraccio che si imbatte nella successiva This Ain’t No Game, vale a dire la più incazzata essenza dei Rolling Stones che ci urla in faccia in modo palese quanto il Southern Rock si sia sempre ad essi ispirato, una cavalcata senza sosta in fuga da ciò che volete voi, purchè sia un qualcosa che vi trasmette inquietudine. Il brano comunica in modo sconvolgente come il “suonare semplice” sia il modo più efficace per arrivare dritto al cervello.



Il rock‘n’roll cammina su strade dritte.

Da sx: Robert Russell, Nick Heller,
Ben Smith: The Brought Low
Vado a bermi un bicchiere d’acqua, e mi strofino la fronte con un panno umido, ma non c’è pace per me, povero ascoltatore indifeso, quando Tell Me mi colpisce… Ok, è vero, il testo a questo punto è davvero imbarazzante, ma come resistere al trascinante riff di Smith che cerca di seminare i suoi senza riuscirci? Lo seguono come un’ombra, anche quando si avventura in uno “special” alla Allman Brothers Band in stile Jessica. Le note di chitarra mi entrano in testa come un ossesso, e dovrò fare una cura povera di fosforo per togliermele dalla zucca. L’album scorre come uno straight whisky con ghiaccio, passando per una Dear Ohio in rispolverato stile Neil Young di Cinnamon Girl, e una Throne con quel basso impastato e tetro che rievoca gli incastri di Geezer Butler in Supernaut di Black Sabbath Volume Four, per arrivare alla celebrata Vernon Jackson, cui va l’attributo di radio-hit dell’album grazie all’essenziale ma ficcante motivo chitarristico e al songwriting, stavolta efficace e sostanzioso, di Smith. Shakedown è il piccolo momento di gloria per il bravo batterista e membro fondatore della Band Nick Heller, che mette in mostra uno stile sobrio ma originale, mai invasivo ma cruciale nel contribuire al sound dei Brought Low. Il brano va dritto come un treno in modo trascinante, e la possente conduzione percussiva genera quell’impulso irresistibile – concesso ahinoi solo a chi ha i capelli – di scuotere incessantemente la chioma su e giù al ritmo del pezzo, come fanno oggi i giovani teenagers a un concerto dei Dark Tranquillity.


Copertina del 1. album omonimo,
The Brought Low (2001)
Arrivo quasi con le ossa rotte alla fine dell’album, ma non ho ancora finito di patire le pene dell’inferno perché proprio quando sembra che la quiete mi si adagi attorno dopo la tempesta, Blues for Cubby – l’indiscutibile e sontuoso capolavoro dell’album – mi ferisce in ogni mio punto come fossi vittima di un pacchetto di mischia di rugbisti neozelandesi. È proprio come dice il pezzo, non c’è bianco o nero che tenga, ne giusto o sbagliato che sia… i Brought Low non propinano canzoni di protesta, ma raccontano solo di un fucile nella notte che hai piantato in culo e dal quale inutilmente tenti di fuggire.

Evviva il canto della disperazione.


3. e ultimo album alla data
in cui scrivo, Third Record (2010)
Con la distesa e malinconica There’s a Light si chiude infine il sipario, e giungiamo al termine del nostro viaggio… ma è una ballad che mi fa pensare a quell’aereo che il 20 Ottobre del 1977 cadde dal cielo sulle paludi di Gillsburg, MS, bruciando la vita di Ronnie Van Zant e con questa la folle speranza che il Southern Rock vivesse per sempre anzichè consumarsi come l’effimero volo di una farfalla accecata dalla luce. Bands come i Brought Low sanno ridare linfa a quell’erba bruciata, ed io vorrei sperare che Warren Haynes dei Gov’t Mule o Chris Robinson dei Black Crowes si siano anch’essi malauguratamente imbattuti in questa esplosiva miscela di energia e groove che sono i Brought Low, perché i loro pezzi gareggiano alla pari di molti brani-culto dei Mule o dei Crowes. David Bowie non ce ne voglia, ma possiamo a ragion veduta mandarlo a spendere nell’asserire che se Right on Time fosse stato prodotto 10 anni prima, David Lynch avrebbe eletto A Better LifeBlues For Cubby e This Ain’t No Game a perfetta colonna sonora per il suo Lost Highways.


Ben Smith (Vocals, guitar)
Cuore, braccio e mente pulsante dei Low
EPICO.


D.M.



DISCOGRAFIA
tHE bROUGHT lOW (2001)
rIGHT oN tIME (2006)
tHIRD rECORD (2010)






domenica 23 febbraio 2014

Oggi parliamo di... DINOSAUR JR.



“One of the most distinctive, influential alternative bands of the ‘80s, creators of a loud, sprawling rock and roll driven by J Mascis’ offhand vocals” (Stephen Thomas Erlewine)




Oggi due parole su una band considerata tra i padri del cosiddetto “noise rock”, i Dinosaur Jr. Storico trio che nasce nel 1984 ad Amherst, Massachussets, nel cuore della provincia americana, e composto da J. Mascis (chitarra, voce solista), Lou Barlow (basso, voce) e Murph (batteria); inizialmente i 3 assumono il nome Dinosaur, ma sono presto costretti a modificarlo a causa di lamentele, formalizzate anche per vie legali, da parte di una formazione che già negli anni ’70 aveva utilizzato quel nome, i Dinosaurs (band da vacanza formata da membri dei Quicksilver Messenger Service, Hot Tuna, Grateful Dead, Jefferson Airplane e Country Joe & The Fish).


Ripercorrere dall’inizio la carriera dei Dinosaur Jr. permette di constatare come questa band sia sensibilmente migliorata nel corso degli anni, un po’ come le prestazioni alla distanza di un motore diesel. Ascoltando infatti i primi album d’esordio prodotti nella seconda metà degli anni ’80, e confrontandoli con il sound elaborato negli ultimi lavori post-reunion un ventennio più tardi, ci si rende conto di come l’accresciuta maturità musicale di Mascis & C. abbia conferito sensibili benefici (non tanto al songwriting, profondo e di sostanza sin dai primi album, quanto piuttosto) al sound dei dinosauri. I primi album, soprattutto il trittico iniziale Dinosaur Jr. (1985), You’re living all over me (1987) e Bug (1998) sono suonati in maniera molto “istintiva” ed “immatura”, pur avendo contribuito – riconoscimento arrivato solo diversi anni dopo la loro pubblicazione – alla nascita del c.d. genere grind, antenato del grunge che emergerà qualche anno più tardi con gruppi come i Nirvana, primo esperimento di mix tra una vena punk alla Sonic Youth, ed una molto più melodica e pop da molti accostata a Neil Young.Band il cui tratto distintivo ed a suo tempo innovativo – siamo nella seconda metà degli anni ’80 – fu rappresentato da uno stile molto rude e rumoroso, a più riprese stonato, trascinato ed ipnotico, ma anche da un’impostazione più melodica rispetto a quella che i gruppi punk rivali, come i Pixies, davano alla loro musica in quegli anni.

Si tratta dunque di un power trio che ha contribuito a battere la strada del grunge in tempi non sospetti, un trio che nonostante il seguito crescente guadagnato nel corso dei quasi 30 anni di attività, non è mai riuscito ad uscire completamente dal circuito underground americano (ed è forse anche un effetto voluto dai componenti della band stessa, riflesso delle loro personalità schive ed introverse), a parte il successo ottenuto oltreoceano con i primi 3 album, soprattutto in Inghilterra. Trio che comunque non è riuscito a conservare nel tempo una sostanziale stabilità, ha anzi attraversato una travagliata storia di addii, ritorni, alternanza di session-man e componenti occasionali, scioglimenti e reunion.
Mascis e Barlow si conoscono sin dai tempi delle scuole superiori, all’inizio degli anni ’80, periodo in cui tra l’altro condividono assieme l’esperienza nei Deep Wound dove Mascis è il batterista e Barlow il chitarrista (!!!). Le band ispiratrici dei due sono le stesse; sono infatti entrambi appassionati all’hardcore punk dei Replacements e degli Stooges, alle influenze neo-gotiche dei Black Sabbath, all’ispirazione psichedelica dei Dream Syndicate e ai lamenti vocali e chitarristici di Neil Young e dei suoi Crazy Horse. Entrambi amano i tratti caratteristici di un sound a elevato livello di decibel, intriso di feedbacks e distorsioni.Dalle ceneri dei Deep Wound nascono, nel 1984, i Mogo, che sono fondamentalmente la stessa formazione (Mascis, stavolta alla chitarra, Barlow al basso e Murph nuovo innesto alla batteria) con Charlie Nakajima (anche lui militato nelle file dei Deep Wound) alla voce. La band fa in tempo ad esibirsi dal vivo in una sola occasione, nel settembre 1984, al campus universitario dell’università di Amherst. Mascis fa fuori Nakajima dal gruppo il giorno successivo, a causa dei suoi comportamenti troppo “reazionari” e “politicizzati” sul palcoscenico. Mascis ha tuttavia pronte una serie di canzoni per registrare un disco, proponendosi a Barlow e Murph come cantante in collaborazione col supporto vocale di Barlow. I due si alterneranno alla voce, assumendo la forma di un power-trio senza cantante titolare. Il programma è di auto prodursi il disco stesso, con l’aiuto del vecchio amico dei tempi dei Deep Wound, Gerard Cosloy, che nel frattempo ha fondato una sua etichetta discografica, la Homestead Records.
“Dinosaur” esce nel 1985 e non riceve alcun consenso commerciale. Vengono tirate 1.500 copie del disco per un costo totale della produzione discografica di 500 $. Mascis definisce il sound di questo album “country da far sanguinare le orecchie”, e si tratta in effetti di una particolarissima commistione tra hardcore punk carico di gain e dissonanze, richiami al garage-rock di Gram Parsons e dei Creedence Clearwater Revival, ed ai riff metal dei Blue Cheer e dei Kiss. La svolta avviene, piuttosto, dopo l’uscita del primo album. Il terzetto si trasferisce a New York per un mini-tour e viene notato, durante un’esibizione, da alcuni membri dei Sonic Youth che proporranno loro di fare da supporto al loro tour dell’anno successivo.“You’re living al lover me” esce nel 1987 sotto un’etichetta diversa da quella dell’amico Cosloy, la californiana SST Records. L’album viene prodotto dal tecnico del suono dei Sonic Youth, Wharton Tiers, ed assume una forma più melodica rispetto al primo album; ottiene d’altra parte un ottimo riscontro nel circuito underground. Inizialmente il disco circola con una produzione bonus allegata, Weed Forestin’ di Lou Barlow come solista, produzione che rappresenta lo scheletro di quella che sarà la futura separazione tra Mascis e Barlow, quando il secondo fonderà i Sebadoh. In occasione di questo secondo album nascono parecchie tensioni all’interno della band, e per il già citato “tradimento” operato da Mascis verso l’amico Cosloy che avrebbe volentieri edito anche il secondo disco, e per il “malumore” di Mascis verso i fronzoli in testa a Barlow e i suoi progetti “collaterali” ai Dinosaur Jr., e soprattutto per le tensioni tra Mascis e Murph, laddove quest’ultimo lamenta un’eccessiva ingerenza del primo nel merito delle parti batteristiche delle registrazioni. Mascis infatti, essendo anche batterista, tende ad “imporre” un suo groove di riferimento a Murph arrivando addirittura ad ordinargli delle apposite partiture. Terminate le registrazioni, Mascis se ne torna dalla California a New York, aliendndosi dal resto della band.





“Bug” esce nel 1988 e segna la rottura della collaborazione fra Mascis e Barlow, con quest’ultimo che si dedica completamente al progetto dei Sebadoh. La rottura avviene dopo una fortunata scalata alle classifiche indipendenti del Regno Unito, e dopo un grande successo oltreoceano a seguito del tour proprio in Inghilterra. I brani del terzo album sono più melodici di quelli dei primi due, e riflettono il completo controllo che l’impostazione di Mascis riflette sia sul sound della batteria che del basso da egli imposti, oltre che del suo songwriting e della sua chitarra e voce. È insomma un album in cui il sound è “imposto” da Mascis, il quale nonostante ciò confesserà negli anni a venire che si tratta dell’album che meno apprezza, col senno di poi, fra tutta la produzione discografica dei Nostri nel corso degli anni.

La produzione in trio dei primi tre album non avrà più un seguito, nonostante la firma nel 1990 con la major Sire Records. Mascis rimane “solo” ed è costretto ad auto prodursi in studio la gran parte delle registrazioni di tutti gli strumenti, avvalendosi dell’alternanza di una fitta schiera di collaboratori “occasionali”, sia in studio che live. Gli album degli anni successivi perdono di conseguenza anche quei tratti di originalità ed innovatività che il trittico Dinosaur/You’re living al lover me/Bug avevano avuto, sul finire degli anni ’80. E questo nonostante il maggiore apporto di “melodicità” e “commerciabilità” tengono a galla Mascis e tutta la sua baracca per altri 4 album nel corso degli anni ’90; i Dinosaur Jr. andranno in tour anche avvalendosi di una band di supporto chiamata Nirvana (!!!).
“Green Mind” esce nel 1991 ed è praticamente registrato in studio dalla “One-man band” J. Mascis che scrive le canzoni e suona chitarra, basso e batteria, avvalendosi solo a tratti della marginale collaborazione del chitarrista Don Fleming e del bassista Jay Spiegel.  Nel corso dei tre album successivi, “Where you been” (1993), “Without a sound” (1994) e “Hand it over” (1997) si registra anche lo sporadico ritorno di Murph alla batteria, ritorno che però non assume mai la valenza di reintegro in pianta stabile nella struttura del gruppo. Verso la fine degli anni ’90, Mascis decide di mettere la parola fine all’ormai sfumato progetto dei Dinosaur Jr., voltando pagina col proprio progetto solista J. Mascis And The Fog (1999).




Le basi per la inaspettata reunion del terzetto nel corso della metà degli anni ’00 vengono poste quando Mascis e Barlow si riavvicinano grazie all’apparizione di Mascis, come guest star invitata da Barlow, ad alcuni concerti dei Sebadoh. Nel 2005, Barlow e Mascis rimettono in pista il nome Dinosaur Jr. per partire in tour in Europa. La rinnovata collaborazione non si riduce alle sole esibizioni in tour, ma partorisce dopo tanti anni anche del materiale inedito che irrompe con l’album “Beyond” del 2007 edito dalla Fat Possum records, in cui dopo tanti anni ricompare il terzetto Mascis/Barlow/Murph con una rinvigorita energia, supportata stavolta anche da una notevole maturità musicale e nel songwriting. Seguono rispettivamente, nel 2009 e nel 2012, le ultime 2 produzioni per la Jagjaguar “Farm” e “I bet on sky”.


Ride & Rock
D.M.
DISCOGRAFIA

Dinosaur (1985)
You’re Living All Over Me (1987)
Bug (1988)
Green Mind (1991)
Whatever's Cool With Me (1991)
Where You Been (1993)
Without-a-sound (1994)
Hand It Over (1997)
Beyond (2007)
Farm (2009)
I Bet On Sky (2012)

venerdì 27 dicembre 2013

Oggi parliamo di... RONNIE EARL


"Per lui provo il rispetto e l'affetto che un padre prova verso suo figlio. E’ uno dei più grandi chitarristi Blues che si possano trovare oggi in circolazione. Mi rende orgoglioso” B.B. King



Mai diffidare dei preziosi consigli di un signor musicista. È buona regola che ho sempre seguito sin da bambino. E quando un grande chitarrista mi ha suggerito di prestare attenzione a Ronnie Earl, ho deciso di mettermici d’impegno. Ho sviscerato la sconfinata discografia di questo fenomenale chitarrista, e tant’è stato… Oltre due mesi di intenso ascolto per arrivare, in maniera pressappoco esauriente, a decifrarne l’impressionante varietà di panorami musicali esplorati nel corso della trentennale carriera, dapprima con i Roomful Of Blues nella seconda metà degli anni ’70, e poi con la “creatura” esclusiva, i mitici Broadcasters, per tutto l’arco degli anni ’80 sino ad arrivare ai giorni nostri. Ronnie ha rivisitato soprattutto il blues della scuola di Chicago a lui tanto cara, ma ha toccato anche sostanzialmente – ed a mio parere esaurientemente – il mondo dei ritmi latini, del jazz e del rock ‘n’ roll. Resta a mio avviso uno dei musicisti più completi mai esistiti sulla scena musicale americana e mondiale.

Ronald Horvath nasce a Queens, New York, il 10 Marzo del 1953. Da bambino la famiglia prova, senza il benché minimo successo, ad avvicinarlo allo strumento del pianoforte. Imbraccia la prima chitarra in età non proprio precoce, a 20 anni, mentre già frequenta il college di storia americana a Long Island, ma si afferma quasi alla velocità della luce come uno dei giovani chitarristi più promettenti della locale scena del New England. La svolta musicale della sua vita si compie durante un concerto di Muddy Waters al Jazz Workshop, un piccolo live club di Boston, dove Ronnie si rende conto di avere un sangue che ribolle all’ascolto dei vecchi standard blues… è da lì che decide di sostituire la sua Martin con una Fender Stratocaster, e di forgiare un sound che lo renderà unico in tutto il mondo negli anni a venire. Il suo stile risentirà del profondo ascolto e studio di maestri del blues come come Otis Rush, Magic Sam, Guitar Slim, Jimmy McGriff, Thelonious Monk, John Coltrane e Wes Montgomery.

Il Nostro si introduce alla professione part-time di musicista, alternandosi all’attività di insegnante di sostegno nelle scuole, suonando allo Speakeasy di Cambridge, come chitarrista di appoggio a mostri della scena blues di passaggio in loco, come il chitarrista Otis Rush e l’armonicista big Walter Horton, o ancora come la cantante Koko Taylor grazie alla quale, dato anche l’instaurarsi di una grande amicizia, Ronnie inizia a farsi conoscere anche nell’ambiente di Chicago. A Boston, Ronnie diventa dapprima chitarrista titolare della band Johnny Nicholas & The Rhythm Rockers, e poi membro fondatore del progetto Sugar Ray & The Blue Tones, assieme all’armonicista Sugar Ray Norcia, col quale collaborerà anche negli anni seguenti. Nel 1978, dopo un periodo sabbatico dal lavoro di 8 mesi, passato nel profondo Sud a studiare i segreti del blues tra i locali di Atlanta, New Orleans ed Austin, Ronnie decide di abbandonare l’attività di insegnante e di dedicarsi esclusivamente alla professione di musicista. È in questi anni che Ronnie inizia a registrare come session man con gente del calibro di Sunnyland Slim, Johnny Nicholas e Sugar Ray. Nel 1979 Muddy Waters, durante un concerto, lo invita a salire sul palco per una jam session e, non ricordandosi al momento il suo cognome, lo chiama semplicemente “Ronnie”… la leggenda vuole che questo episodio spingerà il Nostro a modificare il suo cognome d’arte in “Earl”, dalla vena più bluesy, in onore a Earl Hooker chitarrista slide tra i suoi preferiti. Sempre in quell’anno, Ronnie si unisce alle fila della big band Roomful Of Blues, con la quale militerà fino al 1988. Saranno anni caratterizzati da un grandissimo successo commerciale nonché da un’ascesa della sua figura come chitarrista blues, ma anche da una massacrante attività di touring e di produzione discografica. In questi anni Ronnie finirà nel baratro della droga e dell’alcool, anche e forse soprattutto a causa degli elevatissimi ritmi di vita e del turbine di conoscenze di malaffare che caratterizzeranno l’esperienza RoB.

Nel 1983, ancora nel pieno dell’attività con i Roomful Of Blues, Ronnie inizia ad avventurarsi nelle sue due prime produzioni “soliste” assieme al cantante Kim Wilson, Darrell Nulish e Sugar Ray Norcia: escono i due album “Smokin’” e “They Call Me Mr. Earl”. Sono album che ricalcano molto le sonorità classiche del blues di Chicago esplorate dai Roomful Of Blues, tuttavia già con molti spunti originali ed interessanti. In Smokin’ abbiamo gemme come “Ronnie Johnnie”, bel blues trascinato e pieno di groove che mette in mostra il suo stile chitarristico, allo stesso tempo tecnicamente di spessore e sporco quel che serve per suonare il blues; oppure “My home is a prison”, lentone dove Ronnie si alterna meravigliosamente all’armonica di Sugar Ray e alla voce distorta di Kim Wilson; o ancora “Sick and tired”, bel rock ‘n’ roll alla carl Perkins tutto da ballare, piuttosto che “San-ho-zay”, originalissimo riff in cui già si intravede una notevole vena innovativa di Ronnie nell’esplorare il blues, seconda forse solo alla genialità del contemporaneo Stevie Ray Vaughan. They Call Me Mr. Earl è un album più prettamente blues di Smokin’, d’altra parte leggermente più sperimentale. Ricalca atmosfere da fumoso bar di periferia di Chicago, col pianoforte che svolge un ruolo più prominente che nel precedente lavoro. “You give me nothing but the blues” è uno standard magistralmente eseguito; “You’ve got me wrong” ci spinge verso il delta del Mississippi e ricorda un pò le atmosfere degli avi Robert Johnson e Son House, oltre allo stile slide di Junior Kimbrough. “No more chances” è un grintosissimo shuffle in cui la fa da padrone ancora una volta l’accompagnamento di pianoforte e la voce di Kim Wilson. Fantastica a mio avviso anche la lenta “Drinking and thinking” con l’hammond in sottofondo e Ronnie che domina con le sue calde note alla Gary Moore.

Nel 1988 Ronnie lascia i Roomful Of Blues in via definitiva e al contempo fonda i Broadcasters, che esordiscono live il 31.10.1988 al Last Call di Providence, con Darrell Nulisch alla voce, Jerry Portnoy all’armonica, Steve Gomes al basso e Per Hanson alla batteria. Sempre di quell’anno è il primo album dei Broadcasters, Soul Searching. In questo album, rispetto ai primi lavori di Ronnie, emerge la pulizia dello stile, il lavoro d’insieme più che il valore dell’individualità del leader  (altissima), e la cura per le dinamiche. Album che include al proprio interno autentici pezzi d’autore quali Backstroke (chitarra alla guida), It’s my soul (gran cavalcata blues), Blues for Bone (lentazzo divinamente arrangiato e pieno di saliscendi) e Sufferin’ (altro lento che lascia sfogare Ronnie in soli pieni di espressività).


L’inizio degli anni ’90 viene salutato dai Broadcasters con l’energico Peace Of Mind. Qui troviamo pezzi dalla vena ballabile come I want to shout about it o Bonehead too, piuttosto che lenti strappalacrime come Wayward angel. In generale, anche questo quarto lavoro appare di altissima qualità. Sempre dello stesso anno è I Like It When It Rains, album in cui fanno il loro ingresso nella band Ron Levy al piano e voce e Michael Ward al basso; questo album è forse leggermente sottotono rispetto ai precedenti, soprattutto a livello compositivo, ma i pezzi continuano ad essere comunque magistralmente eseguiti, e senza la minima pecca tecnica. Nel 1991, con il sesto lavoro in studio Surrounded By Love si unisce ai Broadcasters il grande amico di Ronnie Sugar Ray Norcia all’armonica, oltre a Tony Zamagni all’hammond e Dave Maxwell al piano. In questo album è da segnalare la bellezza di Kathy’s theme, shuffle da energia allo stato puro, piuttosto che Blind love, Off the hook o la title track Surrounded by love. Sono produzioni tracciate sempre sulla strada maestra del blues di Chicago, ma Ronnie si appresterà negli anni immediatamente successivi ad aggiungere nel suo repertorio ingredienti decisamente più eterogenei.

A partire forse già da Still River del 1993, dove i Broadcasters realizzano la loro prima opera completamente strumentale, esplorando elementi di ritmi latini (si ascolti Szeren, gran bella bossanova) e jazz (Equinox, Wednesday night at The Bull) grazie anche all’introduzione di musicisti molto versatili come Bruce Katz all’organo e Rod Carey al basso. Oltre naturalmente agli immancabili bluesacci (Chili-ba Hugh).

Language of the Soul del 1994 è un album dove i Broadcasters switchano in maniera quasi dirompente verso il jazz, pur preservando una forte vena blues di fondo, e che conferisce loro una notorietà nonché un successo commerciale forse mai raggiunti prima. Ci sono pezzi come Eddie’s gospel groove, Through floods and storms, Blue guitar e Bill’s blues che sono tra i più belli in assoluto mai realizzati dalla band.  Blues Guitar Virtuoso – Live in Europe del 1995 immortala il successo del tour oltreoceano dello stesso anno, e Grateful Heart - Blues and Ballads del 1996 è una grande opera jazz-blues con una fantastica dedica – fra gli altri pezzi – all’indimenticabile idolo di Ronnie che è Duane Allman (Skyman). Sempre del 1994 è il bell’album live con Jimmy Rogers (Same old blues, Got my mojo working e altri fantastici pezzi eseguiti dal vivo).



Il 1997 è l’anno di The Colour of Love, a mio avviso il più bell’album di Ronnie Earl nonché uno dei più grandi album blues di sempre, album pieno di ospiti in sala di registrazione (Hank Crawford, Jaimoe e Gregg Allman degli ABB, Mark Quinones) e prodotto da Tom Dowd (Aretha Franklin, Allman Brothers, Eric Clapton). Spiccano in questo album Bonnie’s theme (che sembra un pezzo del Santana di Abraxas), Everyday kinda man con Gregg Allman alla voce, ‘Round midnight, Anne’s dream meravigliosa ballata, Heart of glass ma soprattutto l’insuperabile Mother angel (sezione ritmica indescrivibile, atmosfere chitarristiche che sembrano un misto fra Santana e ABB, nel complesso un risultato unico, ascoltare per credere).

Nel 2000 arriva Healing Time, ed i Broadcasters si presentano con una serie di sostanziali cambi di formazione con Anthony Geraci (organo e tastiere), Mark Greenberg (batteria) e il ritorno di Michael Ward al basso. In questo album si coglie un certo ritorno alle atmosfere blues di inizio carriera della band (Catfish blues, Blues on a sunday, Lunch at R&M's) ma anche il prosieguo dell’esplorazione di temi jazz (Churchin’, Idle moments, Thembi).

L’inzio del nuovo millennio rappresenta per Ronnie un difficilissimo periodo personale, in cui il Nostro deve aver a che fare con seri problemi di depressione. Il 2001 segna il tentativo di redenzione dal baratro con un album di collaborazioni con una serie di amici-colleghi (tra gli altri, il cantante e armonicista Kim Wilson dei Thunderbirds, il batterista Levon Helm della Band, il tastierista David Maxwell e la cantante Irma Thomas), Ronnie Earl & Friends, con pezzi da non perdere come All your love con Luther Johnson, Might fine boogie con James Cotton e Kim Wilson all’armonica, One more mile, Bad boy e Marie.

Consiglio vivamente l’ascolto di tutta la discografia di Ronnie Earl, anche relativamente agli album realizzati nel primo decennio del 2000: I Feel Like Goin’ On (2003) con la meravigliosa Little Johnny Lee ma anche Donna e Blues for Otis Rush, Now My Soul (2004) con la lenta cavalcata blues Double trouble, The Duke Meets The Earl (2005) con Duke Robillard (West side shuffle, Two bones a pick, Lookin for trouble, A soul that’s been abused), il live Hope Radio (2007), Living in the Light (2009) con la bella ballata What can I do for you e il bluesaccio Blues for the South side, Spread the Love (2010) con Backstroke, la sperimentale Patience e Spann’s groove, e infine il recentissimo live Just for Today (2013) con spettacolari reinterpretazioni di grandi classici quali Heart of glass, Rush hour, Equinox e Robert Nighthawk stomp.

Un gran chitarrista, dalla sconfinata produzione discografica, la cui conoscenza approfondita non dovrebbe mai mancare tra gli appassionati veri del genere blues.

Ronnie And Roll

D.M.


DISCOGRAFIA

1983 Smoking
1984 They Call Me Mr. Earl
1988 Soul Searching
1990 Peace of Mind
1990 I Like It When It Rains
1991 Surrounded by Love
1992 Test of Time
1993 Still River
1994 Jimmy Rogers with Ronnie Earl and the Broadcasters (Live)
1993 Blues Guitar Virtuoso – Live in Europe
1994 Language of the Soul
1996 Eye to Eye
1996 Greateful Heart: Blues and Ballads
1997 The Colour of Love
2000 Healing Time
2001 & Friends
2003 I Feel Like Goin’ On
2004 Now My Soul
2005 The Duke Meets the Earl
2007 Hope Radio (Live)
2009 Living in the Light
2010 Spread the Love
2013 Just for Today

sabato 30 novembre 2013

Oggi parliamo di... TURCHI




Non mi sarei mai imbattuto nei Turchi se non fossi stato uno di quei tipacci che leggono il Busca in maniera più che assidua. Ma trattandosi di un dato di fatto - rifornisco costantemente le mie energie musicali nutrendomi di recensioni di una delle poche riviste (forse attualmente l’unica in Italia) che considero di un certo livello - nel numero di Giugno 2013 un'articolo niente poco di meno che del mitico Paolo Carù mi incuriosisce a tal punto da spingermi ad acquistare tutti e 3 i digital downloads, ad oggi esistenti, di questa Band proveniente dalle contee di Panola, Tate e Marshall, profondo Sud, Mississippi. L’accostamento fatto ai Turchi dal Busca è al sound di grandi esponenti del blues del delta, andati ed attuali, quali Fred McDowell, R.L. Burnside, Junior Kimbrough e Kenny Brown, nonché ai North Mississippi Allstars di Luther Dickinsonn ed ai Drive-By Truckers. Una formazione che nasce alla fine del 2011 e che, come in una fulminea pellicola, produce un album live di ottima fattura, nonché un album in studio full-length più un EP praticamente in meno di due anni.

Ma andiamo con ordine.

Formazione che ruota attorno alla figura del suo leader Reed Turchi (composizione dei pezzi, voce e chitarra solista) - padrone della tecnica slide e delle scale blues al punto da rendere tali elementi la costante del sound della Band - che unisce le forze con l’ottimo batterista Cameron Weeks, dal tocco “Bohnamiano” e presente, in grado di conferire senza troppi fronzoli un groove bello “dritto” ed efficace alle canzoni infilate all’interno di questi tre dischi. Attorno a loro si alternano una serie di altri musicisti; in particolare si avvicendano al basso, in un via-vai piuttosto veloce, vari musicisti della scena locale prima di arrivare all’assestamento attuale con Andrew Hamlet. Il power trio così composto si avvale poi della collaborazione di John Troutman a sostegno di Reed Turchi alla seconda chitarra e pedal steel, e di Brian Martin all’armonica.

E veniamo ad alcune considerazioni sul sound.


L’ascolto dei tre album è senz’altro piacevole. Delta blues e southern rock sono le etichette che senza dubbio mi sento di attribuire alle loro sonorità. La voce di Reed Turchi è molto aspra e “cattiva”, mi fa venire in mente quella di Dan Auerbach dei Black Keys, o meglio ancora quella di Fredrick "Joe" Evans IV dei Left Lane Cruiser, forse un po’ meno strozzata dal whiskey di quella del secondo. Ma i Turchi sono tecnicamente più dotati di Band come i Left Lane Cruiser, i Black Moses o i Bassholes (non a caso sto facendo un accostamento ad esponenti del c.d. “punk blues”), che prendono a prestito le sonorità del delta per tradurre in chiave vintage le loro radici essenzialmente punk. Non è un violentare le chitarre ed alzare il livello dei decibel fino a rasentare atmosfere da live dei Sex Pistols, i Turchi sono più puliti e suonano bene, prendono il blues e lo declinano nel migliore dei modi, in chiave “moderna” se vogliamo, preservandone però la durezza e l’efficacia. Lo suonano in modo “serio”, se vogliamo. Effettivamente il paragone ai North Mississippi Allstars calza molto bene, ed in un ideale spettrometro che pone agli estremi le influenze dei Turchi, metterei i Black Keys a sinistra ed i NMA a destra, con una forte tendenza verso il polo di destra.

 La prima produzione dei Turchi è “Road ends in water” (2012), album registrato in studio con la collaborazione di Luther Dickinson alle chitarre. Come scrivevo, pezzi molto “dritti” ed essenziali con una sezione ritmica efficace ed affiatata. Colpiscono, fra gli altri, Dr. Recommended (Satisfaction Guaranteed), pezzo “piantato a terra” e “strisciante”, e Junior’s Boogie, da “piangi sulla tua birra” che mi riporta alle atmosfere dei Little Feat di Lowell George. In generale, voti ottimi per tutte le canzoni, purchè la predisposizione all’ascolto di questo album non sia quella di attendersi qualcosa di originale e di nuovo. I Turchi suonano il blues e lo sanno fare bene, rivisitano con grande tecnica capitoli già scritti, ci mettono qualcosa del loro, ma non inventano l’acqua calda; capacità che peraltro, di solito, non è prerogativa dell’appassionato ascoltatore di southern rock e delta blues, che va piuttosto alla ricerca di Band come questa che hanno le credenziali per saper ripercorrere con sicurezza le polverose strade, già battute dai Grandi Maestri, del Blues con la B maiuscola.


Discorso che si può riproporre in maniera quasi del tutto integrale dopo l’ascolto di “Live in Lafayette” (2013), registrato dal vivo all’Atmosphere di Lafayette. A credito di questo album c’è da evidenziare che si tratta di un live registrato assolutamente in presa diretta e senza il minimo ritocco, quello che si sente è quello che viene fuori dal cuore di questi cinque intrepidi bluesmen avvezzi al mestiere. Non menano affatto il can per l’aia, i Nostri, vanno sparati al dunque con pezzi come Big Mama’s Door (pezzo di apertura, bellissimo riff di Reed Turchi e stomp trascinante di Cameron Williams), Don’t Let The Devil Ride (mettiti in macchina e guida in una strada senza luci senza aver rigorosamente idea di dove tu stia andando), e Shake ‘Em On Down (qui sembra di essere sotto il palco dei North Mississippi Allstars a Bonnaroo 2004, quando registrarono un live dall’intensità simile, e forse sì anche superiore, quell’“Hill Country Revue” che rimarrà per sempre uno dei più grandi album live della storia del Southern Rock).

Ascolto infine l’EP “My Time Ain’t Now” (2013) dove i Nostri cercano di sperimentare qualcosa di leggermente diverso dal puro blues del delta. Colgo un maggior impegno lirico, mi piace fra gli altri la ballata Any Other Way. C’è oltre al blues una buona dose di folk, che riporta alcune atmosfere dell’EP quasi vicino a Bob Dylan e a The Band.

Nel complesso sono contento, ancora una volta, di aver comprato il Busca… che finchè c’è da scoprire nuove Bands dalla penna di chi ne sa, c’è da fidarsi. Una Band che non passa inosservata, e che vale la pena sedersi ad ascoltare se ti ci imbatti in un piccolo live club di periferia sperduto tra i sobborghi metropolitani di una qualche città del profondo Sud. O magari far partire l’album mp3 acquistato su Bandcamp, comodamente seduti sulla poltrona di casa, o infine avendo la fortuna di ritrovarseli in Italia, come hanno fatto nel 2013 nel corso del loro brevissimo tour in Europa (tra le altre date italiane, in locali come l’Unaetrentacinquecirca di Cantù, e l’Init di Roma, ottobre-novembre 2013).

Ride & Rock


D.M.


DISCOGRAFIA
Road ends in water (2012)
Live in Lafayette (2013)
My Time Ain't Now (2013)

sabato 23 novembre 2013

Oggi parliamo di... CROSS CANADIAN RAGWEED





Provo una certa emozione nel recensire questa Band, perché si tratta della bio che più volte nella mia vita ho provato a scrivere per poi successivamente averne perso ogni traccia di semilavorato, così da doverla ricominciare di nuovo, n (dove n in ambito non matematico sta per “non so quante”) volte. Rileggo fieramente il post sul mio blog quasi fosse il coronamento di un’impresa epica.

Detto ciò, parliamo di questi quattro ragazzi di Yukon che tra la seconda metà degli anni ’90 e tutto il primo decennio del 2000 si sono conquistati una discreta fetta di notorietà nel panorama country-rock americano, soprattutto all’interno dell’area Texas-Oklahoma, proponendosi fra i maggiori elementi di spicco di quello che fu definito il filone “Texas Dirt” del new country contemporaneo.

Identifichiamo subito il genere: Country-rock bello energico e orecchiabile, ben suonato ma oggettivamente senza particolari pretese, portato avanti seguendo quella che a mio avviso è una giusta linea-guida, non solo in ambito musicale, e  cioè “play simple”, “fai le cose semplici”. Potrei partire on the road e stare fuori un mese guidando giorno e notte riempiendomi la mia chiavetta mp3 solo con l’intera discografia dei Cross Canadian Ragweed. Pezzi da fischiettare e di cui ricordare i semplici riff chitarristici; chi ha ascoltato, o ascolta i Reckless Kelly piuttosto che Dierks Bentley o Stoney LaRue, sa sicuramente inquadrarli all’interno di questo cluster di Band.

Il nome Cross Canadian Ragweed è una rielaborazione di quelli dei tre membri fondatori della Band, Grady Cross (Guitars), il front-man nonché elemento di maggior spessore compositivo Cody Canada (Vocals, Guitars), e Randy Ragsdale (Drums). Nulla a che vedere, dunque, con l'acronimo dei leggendari Creedence Clearwater Revival, nemmeno da un punto di vista di affinità musicale (Cross più vicini al pop rock di quanto non lo fossero i Creedence, che per una larga parte della loro produzione discografica si sono tenuti sempre all’interno del genere country blues).

I Nostri si formano come detto a Yukon, Oklahoma, nel 1994, ma decidono ben presto di stabilire il loro headquarter nella città universitaria di Stillwater, da molti definita la “Austin del Nord” grazie al fermento artistico che si respira in città. Conquistano ben presto un massiccio seguito in ambiente studentesco e trovano ospitalità in numerose trasmissioni radio locali, grazie alle quali il loro primo album “Carney” (1998) arriva già supportato da un buon giudizio della critica e recepito da un folto seguito di appassionati pronti ad acquistarlo. Spiccano in questo album i pezzi Hey Hey, allegra cavalcata al galoppo in cui la fanno da padrone i bei fraseggi di chitarra tra Canada e Cross, Help Me (Get Over This Mountain) anch’essa orecchiabile e semplice, le due ballad strappalacrime Jenny e On You Own, e infine quello che a mio avviso è il pezzo più bello e architetturato dell’album, Proud Souls che parte con un’intro folk alla Bob Dylan e si distende in una ghost track di animo country alla Chris LeDoux.

Sulla scia del buon successo commerciale ottenuto con il primo album, esce l’anno successivo “Live And Loud @ The Wormy Dog Saloon” (1999). L’etichetta indipendente Underground Sound, da essi stessi gestita, produce anche il secondo album in studio “Highway 377” (2001). Album più rockeggiante del primo, è ben identificabile in pezzi più “nervosi” come Forty-Two Miles o Long Way Home, oltre a del materiale anche questa volta orecchiabile e “da radio airplay” come la title-track Highway 377 o Back Around.


Il terzo album in studio, l’omonimo “Cross Canadian Ragweed” (2002), dedicato a Mandy Ragsdale sorella del batterista Randy e morta in un incidente stradale, ottiene un successo su larga scala a livello nazionale. E’ un album decisamente bello e riuscito, probabilmente il migliore dei CCR se dovessi sbilanciarmi, vario dal punto di vista degli ingredienti utilizzati, ma forse nel complesso più “rock” degli altri. Basti ascoltare Don’t Need You che sembra quasi un pezzo dei Black Crowes… L’album contiene anche delle ballad assolutamente fantastiche come ad esempio Carry You Home, e richiami all’amato country rock che li ha resi popolari in tutto il Sud, come Walls Of Huntsville.

Successo commerciale che continua anche con l’album seguente “Soul Gravy” (2004), che proietta i quattro di Yukon al quarto posto della classifica Billboard. Tuttavia a parte il successo di vendite, a mio avviso, si tratta di un album che rispetto alle produzioni precedenti li vede un po’ più sottotono e con meno ispirazione; salverei solo due o tre pezzi, in particolare Hammer Down, Flowers (bellissima ballad) e Too Far Gone (una sorta di “Jam Session in studio”, ascoltare tutto fino anche alla ghost track!).

Nell'ottobre 2005 la Band pubblica l’album “Garage” che grazie al singolo "Fightin 'For" li fa volare nella top 40 delle classifiche nazionali, raggiungendo la posizione n.39 , così come "Dimebag", un omaggio a Darrell Abbott chitarrista fondatore dei Pantera. A mio avviso i pezzi più belli dell’album sono Blues For You e la riuscitissima cover di Bo Diddley Who Do You Love, in cui finalmente i Nostri sfoggiano a tutti gli appassionati di Southern come me, la capacità di saper avere a che fare con le slide e con il Blues del Delta.

I CCR navigano oramai a  gonfie vele, forti anche di un’attività di Touring instancabile che verrà immortalata dall’album doppio del 2006 “Back To Tulsa - Live And Loud @ Cain’s Ballroom”, registrato “in casa Oklahoma” il 31 ottobre 2006. La Band ha la possibilità di duettare, in questi anni di notevole successo commerciale, con star della musica country come Dierks Bentley e Stoney LaRue, piuttosto che Mickey & The Motorcars e Reckless Kelly.

Nel 2007 i CCR tornano in studio a San Diego, California, per registrare “Mission California”, la loro sesta produzione di inediti. Qui ci sono spunti interessantissimi che avvicinano i CCR ai Reckless Kelly piuttosto che a Dierks Bentley, siamo in ambito country rock in cui i ballerini di line-dance possono sfoggiare i loro passi a suon di piroette e batter di stivali al suolo: ascoltare Record Exec, e I Believe In You (il testo recita “I believe in kharma, I believe in soul, I believe in heaven, I believe in rock ‘n’ roll… I believe in wrestling, I believe in sleep, I know I ought to quit now, but I believe I’m in too deep!!!”).

Il 2009, quindicesimo anno di attività della Band, vede infine l’uscita del settimo e ultimo album in studio, “Happiness And All The Other Things”. Bellissimo il pezzo Blue Bonnets, ballad che Cody Canada dedica al suo figlio maggiore Dierks.

Nel maggio 2010, infatti, i CCR annunceranno una pausa dalla loro attività di touring nonché di produzione discografica. In un comunicato stampa, il batterista Randy Ragsdale spiegherà la motivazione “ufficiale” per cui la Band prenderà tempo dai palcoscenici e dagli studi: "In questo momento abbiamo bisogno, io in particolare più degli altri, di stare a casa con le nostre famiglie, per quanto mi riguarda soprattutto a causa del fatto che mio figlio JC sta soffrendo di problemi di autismo”. Ragsdale dichiarerà anche di aver spronato gli altri a continuare senza di lui, ma Cody Canada, il leader della band, ha controbattuto: “Abbiamo sempre detto fin dall'inizio, siamo CCR se uniti in 4, o non lo siamo affatto”. La realtà che affiorerà in seguito, tuttavia, sembrerà essere un'altra… il gruppo si è sciolto soprattutto a causa di divergenze artistiche non meglio specificate e di contrasti sulla gestione “di business”, delle finanze della Band, che ha messo in particolare Ragsdale in opposizione agli altri. Lo dichiarerà Cody Canada in un’intervista del 2010: “Volevamo tutelare il nome della Band, ma c'era una persona che non era felice da un punto di vista artistico e di business, riguardo come stavano andando le cose”.


Nel settembre 2010, i CCR organizzano il loro ufficiale “Last Call Show” al Joe’s Bar di Chicago, IL, tutto esaurito, dichiarando che “per quanto ci riguarda, questo sarà il nostro ultimo concerto”.

Dopo lo scioglimento dei Cross Canadian Ragweed , Cody Canada e Jeremy Plato (bassista dei CCR) continuano tuttavia a collaborare instradando un progetto molto simile a quello dei CCR, The Departed, avvalendosi del batterista Dave Bowen, del chitarrista Seth James e del tastierista Steve Littleton; i cinque pubblicheranno subito il loro album di debutto nel giugno 2011. Sempre nel 2011, il batterista Randy Ragsdale torna a Yukon e si mette a suonare con Stoney LaRue. Gary Cross, infine, si mette a gestire un locale live a Yukon.

Ride & Rock

D.M.

Discografia

Carney (1998)

Live @ The Wormy Dog Saloon (1999)

Highway 377 (2001)

Cross Canadian Ragweed (2002)

Live And Loud @ Billy bob’s Texas (2002)

Soul Gravy (2004)

Garage (2005)

Back To Tulsa: Live And Loud @ Cain’s Ballroom (2006)

Mission California (2007)

Happiness And All The Other Things (2009)

mercoledì 6 novembre 2013

Oggi parliamo di... THE BLACK CREEK BAND




Si potrebbe imbastire un più esauriente discorso per una Band come i Black Creek - un solo album ma di sostanza - che non per altre dalle produzioni discografiche incentrate sulla quantità - ma mediocri - a cavallo tra vari decenni... I Black Creek, vale a dire: il volo di una farfalla che muore accecata dalla luce.

Un solo album, "Live From Gainesville" registrato dal vivo il 25 Aprile del 1995 all’Acrosstown Repertoire di Gainesville, nella loro nativa Florida. 9 pezzi al confine tra Allman Brothers Band e Sea Level, una lezione di come si suona in Jam, architetture melodiche perfette e totale spazio all’improvvisazione che ha deliziato gli appassionati di Southern Rock (come me) imbattutisi - quasi per caso - nell’incontro con questa formazione.

Lato mio, conobbi i Black Creek alla fiera del disco usato e da collezione di Bologna del 2010. Quella mattina ero a caccia di rarità Southern già da una manciata di ore, in giro al setaccio tra i banchetti più “di nicchia” della fiera… I banconisti che hanno roba buona, e che possono interessarti, li riconosci al volo da quell’espressione navigata e sorniona sotto la fronte stempiata, barba incolta, di qualche nerd-musicale di mezza età. Incoraggiante percepire un interlocutore dalla calata veneta o toscana, ma soprattutto emiliana; i migliori intenditori si trovano da quelle parti, rigorosamente provenienti dalla provincia. Poi, una volta ingaggiato il discorso e la ricerca del consiglio, devi andare un po’ sulla fiducia, e constatare a casa se il tuo sesto senso ti ha aiutato ancora una volta oppure no.

I nomi della line-up che leggo sulla cover del cd, comunque, non mi sono nuovi e mi incoraggiano ad avere delle ottime aspettative. Leggo della presenza di Cameron Williams (Guitars/Vocals) e di Richard Proctor (Drums), successivamente in forza agli ottimi Tishamingo, Band che coniuga una vena blues alla Derek Trucks con testi alla Ronnie Van Zant, e che mi viene spontaneo accostare agli Steepwater piuttosto che ai North Mississippi Allstars. Poi leggo con sorpresa che il chitarrista solista è uno dei miei preferiti Sliders del Sud, Ryan Newell attualmente in forza ai Sister Hazel, sicuramente più commerciali ma non meno musicalmente dotati delle Bands appena citate. Non conosco invece Randy Goodgame (Piano/Hammond), successivamente avventuratosi in una carriera solista nell’ambito del Christian Rock, e Jason McDaniel (Bass), oggi proprietario di uno studio di registrazione a Boulder, CO, The Coupe Studios. Leggo che prima di questo live, i Black Creek avevano inciso un solo demo tape, un “Self titled” di 4 pezzi del 1993 (disponibile solo su musicassetta!), oggi letteralmente introvabile.

L’ascolto del cd è una bomba: 55 minuti di Jam session senza la minima falla, sembra di riascoltare una declinazione ben riuscita di “Live at Fillmore East” degli ABB… “Confused blues” dà subito spazio alla grande tecnica chitarristica di Ryan Newell, alla vena improvvisativa di Randy Goodgame al piano ed alla potente voce “alla Jimmy Hall” di Cameron Williams… “Movin’ on” è più orecchiabile e distesa, ricorda le sonorità di “Jessica” degli Allman, tanto per citarli per la cinquecentesima volta. “Shakerag hollow” sembra a tratti quasi un pezzo di Pat Metheny, lascia spazio alla forte vena jazzistica del quintetto. Ma il cuore dell’album sono a mio avviso i due pezzi centrali, da cinque stelle: la lunghissima cavalcata “Black Creek Jam”, 10 minuti e mezzo letteralmente perfetti e senza sbavature, e “Peachy clean”, ovvero l’animo country alla Marshall Tucker dei Nostri. Non può mancare una ballad strappalacrime come “Southern spirits” e un’altra epica Samarcanda improvvisativa come “Done enough”. Ryan Newell scatena di nuovo la sua slide in “Old man”, ed infine i Nostri chiudono con distensione in un’ultima “nostalgica” jam di 7 minuti e mezzo in “Tennessee mountain angel”.

Il live è dall’esecuzione semplicemente perfetta. Peccato i Black Creek non abbiano registrato nulla in studio e non abbiano continuato sulla falsariga di questo progetto, magari impostandolo anche solo come “Band da vacanza” a margine dei più riusciti progetti Tishamingo/Sister Hazel etc…

Se piace il disco (non chiedetemi come trovarlo, io ci sono riuscito quasi per caso, magari su amazon si trova qualcosina fate un po’ voi…) consiglio l’ascolto di una Band simile chiamata The Grapes, in particolare nell’album “Private stock”, sempre del 1995, sempre un southern rock in odor di Allman Brothers. Il vantaggio di questa Band è che almeno potrete trovare una produzione discografica un po’ più consistente rispetto a quella dei Black Creek, 4 album tra il 1991 ed il 1997. Lo svantaggio è che anche il materiale dei Grapes, come quello dei Black Creek, è pressoché introvabile.


Southern Rock rules
D.M.






DISCOGRAFIA

1993 Black Creek Band (solo su musicassetta)

1995 Live from Gainesville